da Avvenire del 16 dicembre 2010, pag. 33
Nel giugno 2002, il ‘New York Times’ divulga un’idea fino al momento coltivata con cautela solo in certi settori scientifico-culturali all’avanguardia. Si tratta di una di quelle idee da somministrare al grande pubblico in dose diluita e graduale, se non si vuole l’immediato rigetto e un gran scotimento di capo da parte del lettore. Ed invece il giornalista George Johnson, con stile moderatamente caustico, la ‘sbatte sulla pagina’ senza premessa alcuna: per certi scienziati, sempre alla sfrenata rincorsa del nuovo, l’universo è un computer. Al cuore dell’articolo, è segnalata la Lloyd’s Hypothesis, il principio formulato dall’ingegnere quanto-meccanico del Mit, Seth Lloyd: siccome ogni molecola, ogni atomo e quark registrano informazioni, il modo migliore per cogliere l’essenza di un oggetto – minimo o massimo che sia – è conoscerlo come un dispositivo che processa bit. Un computer, insomma.
Il ‘NY Times’ aggiunge che Lloyd ha voluto sottoporre la sua audace ipotesi ad un dibattito aperto tramite il sito edge.org. Ebbene, nella settimana successiva alla notizia, il sito menzionato riceve oltre mezzo milione di visite, contro le sessantamila medie mensili. C’è solo da prenderne atto, ormai: la metafora del computer incuriosisce, interessa, avvince, in certi casi, convince. L’immagine già dantesca, galileiana e newtoniana del cosmo come un Grande Orologio, con i suoi meccanismi ad ingranaggi e ruote, cedette il passo, al tempo della Rivoluzione industriale, al cosmo-Grande Macchina a motore, e il tutto fu ridescritto in termini di legge della conservazione dell’energia. Oggi, nell’età dell’informazione, la metafora prediletta è mutata: si studia la mente come fosse un software, si vede il divenire della natura come un cosmico automa cellulare e, soprattutto, si pensa all’universo come un Grande Computer.
Questo è quanto delinea Tom Siegfried nel libro – anch’esso di inizio millennio – The Bit and the Pendulum, che intravede nel fenomeno culturale qualcosa di più sostanzioso di un semplice cambio di metafora. Avendo ormai la letteratura abusato dell’espressione ‘mutamento di paradigma’, ecco che Siegfried inventa il ‘superparadigma’ composto dalla triade informazione (o bit) – processo d’informazione (o computazione) – macchina che processa informazioni (o computer). «L’informazione è tutto» si declama nella new economy e nelle scienze della comunicazione; «tutto è informazione», fanno da controcanto certe nuove tendenze della scienza della materia. E mentre vengono istituiti settori come il Center for the Physics of Information al Caltech o il Physics of Information Group all’Ibm, l’idea dell’universo-computer si sparge nella pubblicistica divulgativa e in quella specialistica. Alla domanda che poneva qualche tempo fa Olivier Postel-Vinay su ‘La Recherche’: L’Universe est-il un calcolateur?, risponde di recente ‘New Scientist’ con The Universe Is a Quantum Computer, recensione al libro del docente di Informazione quantistica del Mit, Vlatko Vedral, dall’ammiccante titolo Decoding Reality, che riprende la metafora della realtà come un programma informatico da decodificare.
Intanto, Brian Hayes, con un contributo all’’International Journal of Theoretical Physics’, compie un ulteriore passo in avanti. Il problema non è più se l’universo sia un enorme processo computazionale, ma come elaborare un programma per computer capace di implementare un universo come il nostro. Il titolo dell’articolo è Debugging the Universe, dove l’azione del ‘ debug’ – altra espressione fermentata nel mondo informatico – equivale al togliere gli errori, i vizi, i ‘bachi’ (bug) da un sistema. Il fine: ottenere una versione ottimizzata del nostro universo.
La nuova immagine dell’universo-computer non può non avere risonanza sul piano cosmogonico e, in ultimo, sulla questione religiosa della creazione. Già Charles Babbage, agli albori della cibernetica, fantasticò che ‘Logos’ fosse il codice con cui il Dio creatore instanzializzò il calcolatore cosmico. Ai nostri giorni, l’antropologo Stefan Helmreich riferisce, nel suo The Word for World Is Computer, di una simulazione di vita artificiale che si chiama Aleph. Il già menzionato Seth Lloyd inizia il suo libro Il programma dell’Universo con una sorta di nuova Genesi: «All’inizio era il bit», per giungere, nelle pagine finali, a concludere che «la terra di cui siamo stati plasmati è la computazione». Come dire: ricordati che sei bit e bit tornerai. Ancora più diretta, in senso teologico, è la riflessione distesa da Kevin Kelly in un articolo molto noto nel settore, God Is the Machine. Merita di essere ricordato anche il lungo sottotitolo che, in italiano, suona: ‘All’inizio era lo 0. E poi fu l’1. Una meditazione ipnotizzante sul potere trascendente della computazione digitale’. Qui Kelly, dopo un’ariosa ricognizione della storia dell’idea dell’universo-computer, si blocca dinanzi ad un dubbio assai intricato: ma Dio, di questo universo, è il Sommo Programmatore, è il Software cosmico o, ancora, è il ‘necessario Other’, ovvero la Piattaforma esterna dove il programma ‘universo’ è fatto girare? Si tratta di un interrogativo singolare, anche un poco irriverente, che nel futuro prossimo, però, potrà tornare ad interpellare. In una Bibbia francese di metà XIII secolo, la Bible moralisée, campeggia la miniatura abbastanza famosa del ‘Dio Architetto dell’Universo’. Vi è raffigurato, sulla parte sinistra, il Creatore in piedi, in posizione ricurva, con in mano un enorme compasso, il cui pernio è all’altezza della spalla e le lunghissime aste finiscono ai suoi piedi dove, nella parte destra, disegnano la circonferenza del cosmo.
Strumento tecnologico per strumento tecnologico, non dovrà sorprendere se tra breve, nell’iconografia sacra, comparirà anche l’imponente figura del Creatore che ha a portata di mano, al posto dell’antico Grande Compasso, un moderno Potente Computer.
Non ci dovrà sorprendere, ma, ugualmente, ci farà un effetto molto strano.
di Andrea Vaccaro
da Avvenire del 16 dicembre 2010, pag. 33
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