La ricerca deve avere il coraggio di indagare anche dove non si prevede un tornaconto
di Carlo Dignola
È uno degli scienziati-medici viventi di maggior talento e premio Nobel per la chimica nel 2004 per aver scoperto come le proteine vengono smaltite dal nostro corpo. La sua famiglia era immigrata in Israele dalla Polonia prima dell’inizio della seconda guerra mondiale, e Aaron J. Ciechanover, nato ad Haifa nel 1947, ha anche servito tre anni nella Marina israeliana, nella quale ha il grado di maggiore. Ma la sua vita è stata dedicata alla scienza: ha studiato alla Hadassah Medical School dell’Università Ebraica di Gerusalemme e ha ricevuto il titolo di dottore in medicina all’Israel Institute of Technology (Technion), dove oggi insegna.
Lei ha ottenuto il Nobel perché, in anni in cui tutti cercavano di capire come viveva e si riproduceva la cellula, ha studiato la sua morte. Come le è venuta questa idea?
Ricordo bene che in tempi in cui l’intera comunità scientifica cercava di capire come l’informazione genetica del Dna venisse trascritta nell’Rna e come l’Rna formasse le proteine, occuparsi della decostruzione della cellula sembrava una cosa senza alcuna utilità pratica. Per costruire una casa – si pensava – ci vuole un architetto, un capomastro, materiali, immaginazione, artisti, per distruggerla basta un bulldozer. Io e altri abbiamo pensato che tuffarci nella corrente in cui nuotavano tutti non sarebbe stata una grande idea, mentre tentare di fare qualcosa di diverso ci avrebbe offerto più chance. Oggi possiamo dire che avevamo ragione.
La scoperta ha avuto poi anche molte ricadute concrete nel campo della medicina. Capita spesso nella scienza: quando per anni si segue una certa direzione e non si trovano le soluzioni giuste, è meglio tentare di approcciare il problema da un altro lato, che all’inizio può sembrare anche un po’ assurdo, no?
La scoperta scientifica è qualcosa che non si può prevedere. E forse in questo c’è una lezione: oggi tutti chiedono agli scienziati di indagare in direzioni che potrebbero avere delle ricadute concrete; 25 o 30 anni fa chiunque ci avrebbe potuto dire: “Perché lo fate? Non arriverete a nulla. Non c’è nessuna utilità per l’umanità in una ricerca come la vostra, non se ne ricaverà nessuna medicina, nessun progresso nella cura delle malattie”. Oggi il Governo, i politici, gli stessi scienziati indirizzano se stessi lungo le autostrade dove la ricerca può finire più facilmente applicata. Io penso invece che la direzione della scienza sia una materia un po’ più delicata: non sai mai cosa può esserci dietro un angolo. Quindi l’unico metodo intelligente da seguire è fare della buona scienza. E la buona scienza alla fine dà buoni risultati.
Cosa pensa della ricerca attuale su malattie come il cancro, il Parkinson, l’Alzheimer?
Che siamo alle porte di un grande e importante cambiamento. Finora la ricerca è stata indirizzata verso un genere di trattamento del paziente che io chiamo “taglia unica”: se hai un cancro al seno o alla prostata c’è un’unica strada per tutti. Adesso si sta aprendo la strada di una medicina mirata sulle caratteristiche biologiche di ciascuno. Potremo cominciare a immaginare trattamenti personalizzati, che ci permetteranno di capire anche perché quelli usati fino a oggi siano falliti, o meglio, abbiano ottenuto risultati solo parziali.
Non pensa che dovremmo avere un diverso approccio anche per capire le malattie? Pensare al corpo umano più come un organismo che a una serie di pezzi? Incrociare i dati di diverse discipline?
Oggi stiamo sviluppando dei nuovi strumenti, esiste una nuova professione che chiamiamo “biologia sistemica”. Si stanno combinando, ad esempio, gli approcci informatico e biologico e forse stiamo cominciando piano piano a scalare veramente questa montagna.
Nei prossimi anni potremmo tornare a una scienza più “umanistica”?
Non si tratta solo di avere un approccio più “umanistico”, ma di comprendere più a fondo anche la nostra storia e la nostra cultura. Io non penso che la scienza possa crescere da sola, senza avere dietro di sé una cultura “umanistica” nel senso più ampio del termine. Oggi la scienza fa sorgere molti problemi etici, che troveranno la loro soluzione nella filosofia, nella storia, nella comprensione delle altre culture. Voi italiani ad esempio vivete in un Paese che ha una forte inclinazione religiosa, e io che vivo in Israele comprendo bene questo approccio. Io stesso sono un membro della Pontificia Accademia delle Scienze, vado spesso in Vaticano, capisco benissimo perché il Papa abbia fondato un consesso del genere, in cosa sia impegnato. Non possiamo spazzare via tutto l’uomo e dire: quelle che affronta la scienza sono questioni meramente logiche, Dio o concetti simili non c’entrano nulla. Anche se tu non sei personalmente un credente non puoi non capire il fatto che altri credono, non puoi entrare in questo negozio di porcellane cinesi senza alcuna attenzione e farle a pezzi. La scienza deve crescere, ma non è semplicemente una curiosità professionale a spingerla. Ogni cosa oggi è scienza, la stessa comunicazione lo è. La scienza ha come fine aiutare la società, e la società è un corpo complesso, quindi bisogna essere estremamente consapevoli di quello che si sta facendo. Io credo che il progresso della scienza debba assolutamente andare di pari passo con la crescita dell’umanità.
Lei è noto per essere un uomo spiritoso. L’umorismo ha qualcosa a che vedere con il suo mestiere?
Penso di sì. Tutti noi abbiamo personalità diverse, l’oceano degli esseri umani è molto più diversificato di qualsiasi altro mare, ma penso che dovremmo mantenere noi stessi nella giusta proporzione. Man mano che si invecchia si scende un po’ dal podio, anche come scienziati. Dobbiamo essere estremamente seri da un lato, nel capire il mondo e cercare di viverci in pace, per quanto è possibile; dall’altro lato non ci possiamo prendere troppo sul serio. Cosa spinge noi uomini a ridere? Questa è una grande domanda scientifica, sa? Cos’è uno scherzo? Come siamo stati educati a capire questo tipo di attività umana, ad accorgerci che uno scherzo è uno scherzo? Anche una domanda del genere appartiene alla conoscenza, e mi affascina. Prendere la vita con una certa levità credo che in fondo ci aiuti, l’umorismo ci aiuta a spendere energie per fini utili e non a sprecarle per altre cose inutili. L’uomo butta via gran parte del suo tempo, il sense of humour ce ne fa risparmiare un po’.
La scienza del nostro tempo in qualche modo sta mettendo l’uomo in competizione con Dio: non la partita, ma qualche “set” possiamo vincerlo?
Io non penso che possiamo battere Dio, perché non sappiamo esattamente chi sia. Detto in termini un po’ più comprensibili, penso che la coscienza sia infinita, che non arriveremo mai a mettere il tetto della Torre di Babele. Non vinceremo, no: Dio sarà sempre al di sopra di noi, qualunque cosa Dio sia. Viviamo in un mondo che si sta squadernando senza fine, la conoscenza che ci si apre davanti è infinita. Noi oggi quando guardiamo all’Ottocento pensiamo che quella gente fosse molto primitiva, ma provi a immaginare come guarderanno noi gli uomini del xxiii secolo. Se la conoscenza è senza fine, dobbiamo solo andare avanti continuando ad aprire nuove strade e domande. Questo è e sarà sempre il nostro modo di guardare umano. Madre natura non rinuncerà ai suoi segreti: come dice un mio collega, David Gross, premio Nobel per la fisica, i segreti rimarranno con noi molto a lungo, man mano che il nostro progresso si spingerà più a fondo saranno sempre di più.
Perché questo accade? Se lo è chiesto?
C’è fuori di noi uno spazio infinito. È un processo veramente senza fine, il nostro. Io ho un sogno: oggi viviamo in media ottant’anni, ma vorrei poter vivere come una persona adulta e cosciente per un periodo di mille anni: viverne cinque e poi morire per cent’anni, poi viverne altri cinque e dormire per un altro secolo e così via, per svegliarmi continuamente e vedere come il mondo sta progredendo, come stiamo risolvendo i problemi. Ma poi ho anche pensato che sarebbe complicato scegliere esattamente l’intervallo di queste morti.
Potrebbe svegliarsi nel momento sbagliato, fare anche qualche grosso errore.
Già, perché siamo dentro un processo senza fine. Non cambierebbe nulla, anche vivendo più a lungo non troveremmo mai soddisfazione. Così penso che in questo senso Dio – di qualsiasi Dio si tratti – dovrà pur sempre aprire le sue braccia su di noi. Noi viviamo sempre su una linea, siamo sospesi sul ponte.
© L’Osservatore Romano
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