da L’Osservatore Romano, 7 ottobre 2010
Il Nobel per la medicina
Una corsa al ribasso
di Carlo Bellieni
L’assegnazione del Nobel per la medicina a Robert Edwards per la fecondazione in vitro (fiv) fa discutere. Pur dando valore al riconoscimento, subito il “New York Times” si è stupito per l’attribuzione del premio a una ricerca di trent’anni fa e il giorno dopo “Le Figaro”, forse non a caso, si è dilungato sull’esclusione negli ultimi anni dal novero dei Nobel di diversi studiosi meritevoli. È un premio che, tra l’altro, suscita interrogativi perché focalizzare sulla fiv il dibattito sulla riproduzione umana lascia fuori qualcosa di importante.
In questo dibattito c’è infatti un grande escluso, un escluso che fa sentire la sua mancanza con effetti devastanti a livello sociale e clinico: è la prevenzione della sterilità, patologia che nel mondo occidentale è in netto aumento anno dopo anno, mentre tutta l’attenzione in questo ambito è volta a garantire le richieste di fecondazione medica. Come se per curare il vaiolo ci si fosse limitati a cercare medicine nuove e costose per chi era già malato, invece di debellare questa malattia con la vaccinazione. E allora si rincorrono continuamente modalità di fecondazione, non spiegando che la sterilità può in gran parte essere prevenuta.
Si tratta di evitare certe infezioni, moderare l’uso di alcol e bandire le droghe, liberare l’ambiente da composti plastici o solventi che addirittura possono alterare la fecondità del nascituro, agendo sulle ovaie di un embrione femmina se la mamma li dovesse assimilare in gravidanza. E soprattutto si tratta di impostare una politica culturale e sociale per riportare in un range fisiologico l’età in cui le donne fanno i figli: più si aspetta e più è difficile concepire, anche con la fecondazione medica.
Invece domina un’etica da corsa ai ripari, e non è un caso isolato. Tutto il dibattito etico è tenuto forzatamente lontano dalla prevenzione. Si parla pochissimo anche di come prevenire le richieste di aborto o eutanasia, come se si trattasse di tabù: se la persona ha scelto, si dice, nessuno deve interferire; un criterio che è alla base dell’abbandono e della solitudine, ma che oggi viene chiamato libera scelta. E non volendo interferire con un supposto diritto, si fa terra bruciata sulle alternative; quando poi la politica o la società civile propongono un intervento preventivo, ci si straccia le vesti.
È una corsa al ribasso intollerabile, perché viola il diritto alla salute e perché fa fare passi indietro alla medicina moderna basata sulla prevenzione. Ed è una corsa illusoria: se infatti non si risolvono a monte, i problemi restano. Se non fosse una tragedia, sarebbe una farsa. Come se invece di prevenire la malaria con la bonifica delle paludi e la vaccinazione, impiegassimo appunto i fondi a disposizione solo per curare a caro prezzo chi è già infettato, lasciando la malattia diffondersi. Una cultura miope sta alla base di una politica transnazionale così fatta, e di questa avranno responsabilità verso il mondo intero gli organismi internazionali che l’appoggiano.
Ma è sul fronte dell’induzione dei bisogni che si gioca la partita. Il desiderio di un figlio non è indotto, ma lo è l’atteggiamento sbarazzino con cui l’idea di figlio viene accantonata fino agli anta, salvo poi pentirsi. Già, perché il problema è che per evitare il paternalismo, si cade nelle mani della pubblicità. I bisogni diventano quelli che ci vengono indotti e finiamo per reclamare costose corse ai ripari invece di un ambiente che non ci derubi della fertilità.
Quello dei bisogni indotti è un fenomeno ben noto in medicina, nella quale esiste il disease mongering (“mercanteggiamento di malattie”), cioè lo spacciare per malattie dei fenomeni fisiologici come la menopausa o la timidezza, per vendere farmaci attraverso sapienti campagne pubblicitarie con tanto di testimonial (si veda il libro-indagine Selling sickness di Ray Moynihan e Alan Cassels). E fa pari con l’invito martellante dai teleschermi a un consumo superfluo e non solidale o, come riporta Loredana Lipperini nel recentissimo Non è un paese per vecchie (Feltrinelli), con l’assimilazione restrittiva del concetto di salute a quelli di bellezza nella donna e di potenza nell’uomo, generando stress, disillusione e – quel che più conta – spesa.
Viviamo in modo stressante, tra malattie sessualmente trasmesse, lavori (stamperie, lavanderie, saloni di bellezza) che mettono a rischio la fecondità anche per l’impiego di sostanze che, se assorbite, mimano l’azione degli ormoni naturali e finiscono invece per bloccarla; mangiamo pesci al mercurio, abbiamo da poco allontanato il piombo dalle vernici e dalla benzina (proprio ieri il nostro giornale ha denunciato un tragico avvelenamento collettivo da piombo in Nigeria); spruzziamo antiparassitari sulla frutta (ci sono state epidemie di sterilità in Centro America per questo motivo); e tutto quello che i media sanno proporre per la nostra salute riproduttiva è la fecondazione in vitro.
Pensiamo piuttosto al bene comune, in una visione ecologica, che in altri termini significa una attenzione alla legge naturale, che non è mero naturalismo, ma intelligente prevenzione e rispetto del corpo. La Chiesa questo desidera: non persone spaventate che passano metà della vita nel terrore che arrivi un figlio e l’altra metà in quello che non arrivi più; ma persone informate, consapevoli della bellezza del corpo ma anche della forza coercitiva dei media, capaci di capire che vale più avere un figlio che comprare l’auto nuova, come invece mostra qualche pubblicità.
La cultura occidentale difficilmente seguirà questa preoccupazione: significherebbe indicare dei cambiamenti degli stili di vita, cosa che non è in grado di fare, tutta presa com’è a osannare l’autonomia e l’autodeterminazione. Ma non è saggio ignorare l’emergenza, e continuare a offrire a un mondo sempre più sterile solo nuove e costose tecniche fecondative. Una soluzione di grande impatto mediatico, ma certo solo palliativa.
© L’Osservatore Romano
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