da L’Osservatore Romano, 10 giugno 2010
Se si flirta con l’eugenetica
Handicap e clima culturale
di Carlo Bellieni
Una forte protesta si è levata in Italia alla notizia che la regione Veneto aveva proposto di escludere dall’accesso al trapianto di organi le persone con grave handicap mentale. La reazione, sulla base delle informazioni disponibili, era corretta, ma la Regione ha prontamente fatto chiarezza: nessuno in Italia, e tantomeno in Veneto, viene discriminato per l’accesso alla salute. Questo rasserena: se qualcuno volesse usare un criterio selettivo di accesso al diritto alla salute, non sulla base dell’utilità per il paziente, ma sulla base di quale paziente lo “merita”, si creerebbe una discriminazione inaccettabile.
Detto questo, fa riflettere la reazione di stupore che ha seguito la notizia: strano, dato che purtroppo in occidente la discriminazione genetica è un fatto quotidiano, e nella pratica accettato. Oggi, non viviamo forse in una civiltà che si permette di non far nascere i bambini concepiti perché portatori di handicap? E non viviamo in un mondo che non sa che farsene nemmeno del disabile già nato?
Nel 1984 negli Stati Uniti un bambino down – convenzionalmente chiamato baby Doe – fu lasciato morire di fame perché, nato con un’anomalia operabile all’esofago, i genitori si rifiutarono di dare il permesso all’intervento. La Corte suprema decretò una legge che impediva il ripetersi di episodi del genere; ma oggi questa legge viene rimessa in discussione sia nelle aule della politica che negli ospedali: uno studio ha mostrato che per una gran parte dei rianimatori il peso che il bambino disabile sarà per la famiglia è un dato importante quando si decide se rianimarlo, e che per molti di loro la vita con handicap non merita di essere vissuta (“Journal of the American Medical Association”, novembre 2000).
Analogamente, nel 2000 in Francia venne varato un decreto per il quale il bambino nato con un handicap poteva denunciare il medico che aveva sbagliato la diagnosi prenatale: si sentenziò infatti che il suo interesse era di venire abortito; il decreto venne ritirato in seguito alle proteste delle famiglie dei disabili che crearono collettivi contro l’handi-fobia per difendersi dalle conseguenze stigmatizzanti che il dispositivo introduceva nella mentalità popolare. Ma l’11 giugno prossimo, lungi dall’aver i francesi sopito il dibattito, la Corte costituzionale tornerà a pronunciarsi su quel decreto.
Chi si indigna per questi fatti inquietanti? La nostra è una società handi-fobica, in cui si inizia finalmente a insorgere contro le discriminazioni razziali, ma si accettano ancora quelle basate sulla malattia genetica: normale è infatti l’idea di “figlio perfetto”, di selezione prenatale, in una società che spende miliardi per la diagnosi prenatale genetica a tappeto e lascia le briciole alla ricerca per le malattie rare o per la cura della sindrome di Down.
E la fobia verso la persona disabile si spinge all’età adulta: “Crediamo che la reale causa della morte di Mark e delle persone con disabilità mentale come lui – riportava nel 2008 un rapporto al Parlamento britannico dell’importante associazione Mencap – sia l’indifferenza nel sistema sanitario verso le persone con ritardo mentale e le loro famiglie”. Quali le cause di questo orrore che, secondo la rivista “Lancet”, ha portato i disabili mentali a essere “quasi invisibili per il Sistema sanitario nazionale”? Certo, alla base si ritrova una mancata formazione dei medici verso i problemi specifici delle persone con handicap, ma “sembrano esserci casi di sfacciata discriminazione, quando i curanti sembrano dare giudizi arbitrari di valore sulle persone con ritardo mentale”.
Al di là del fatto italiano, non si può protestare per conseguenze che addolorano se si accetta – e lo si accetta troppo spesso – il clima culturale descritto; clima che “flirta con l’eugenetica”, come scriveva Didier Sicard, presidente d’onore del Comitato consultivo francese di etica. Se ci s’indigna, che l’indignazione sia a tutto tondo, portando a stigmatizzare e sanzionare le forme di discriminazione della disabilità fatte sia con azioni indegne quali il bullismo, sia con l’appoggio culturale alla discriminazione verso il disabile, anche quello non ancora nato o in fasce.
È un’occasione per la costruzione di un mondo senza barriere: per una scuola che insegni a far amicizia col compagno di banco che non parla; una televisione che mostri i successi sportivi di chi fa slalom senza una gamba o basket in sedia a rotelle; una medicina che non faccia diventare routine il contare i cromosomi prima di decidere se amare un figlio; una cultura che offra un sostanziale sostegno economico e sociale alle famiglie di chi ha un handicap. Su queste basi – senza escluderne alcuna – la Chiesa non solo è aperta al dialogo, ma da sempre offre la dedizione di associazioni e volontari a tutti coloro che vogliano provare a costruire un mondo più umano.
© L’Osservatore Romano
Lascia una risposta
Devi essere connesso per inviare un commento.