da L’Osservatore Romano, 21 maggio 2010
E Giobbe continua a piangere
Il mistero della sofferenza secondo Pavel Florenskij
Il 20 e il 21 maggio si svolge a Roma, nell’istituto Camillianum, il convegno “L’ateologia naturale. La sofferenza interpella la ragione e la fede”. Uno dei relatori ha anticipato per il nostro giornale i temi del suo intervento.
di Lubomir Zák
Pavel Florenskij, conoscendo di persona situazioni di precarietà e di ingiustizia, non poté non porsi pressanti interrogativi circa l’esistenza del male e il suo nesso con la fede in Dio. Un importante tentativo di offrire una prima risposta è nella celebre opera La colonna e il fondamento della Verità. Saggio di teodicea ortodossa in dodici lettere (1914). Nel formularla, Florenskij è debitore di una metafisica e di un’ontologia dell’uni-totalità presenti già in Origene e in Massimo il Confessore (la teoria dei lògoi), e riproposte con nuovo entusiasmo da Solov’ev. Al centro di tali metafisica e ontologia sta l’idea dell’unità sostanziale di tutto ciò che esiste: ciascun particolare del reale è connesso, ontologicamente, con il tutto, in quanto ogni cosa ha in sé lo stesso identico ritmo di “vita”. Tutto ciò che è fa parte, sul piano dell’essere, di un’unica rete i cui innumerevoli e sottilissimi fili conducono verso il misterioso abisso della vita: la casa eterna della Luce senza tramonto. La stessa che deposita i suoi potenti raggi, le sue divine “energie”, in tutto ciò che è in essere.
La soluzione che Florenskij propone per affrontare la questione del male è intimamente connessa a una simile visione del reale. Per elaborarla, egli percorre la via della gnoseologia orientata a risolvere il problema dell’esistenza di una Verità assoluta e della sua conoscenza, Verità compresa come una sorta di fondamento dell’essere su cui “poggia” l’unità nella molteplicità di quanto esiste. Florenskij dimostra che tale Verità è non solo pensabile, ma che la sua descrizione teologica coincide con il dogma trinitario che egli interpreta in chiave relazionale. Per lui, il mistero dell’essere-uno e dell’essere-tre di Dio coincide col reciproco e totale rinnegamento di sé di ogni Persona divina di fronte alle altre due – quale gesto di un amore che ama gli altri più di se stesso – e al contempo con la reciproca elevazione, glorificazione, dell’una da parte delle altre due (quale gesto di un amore trionfante). In sintesi, è una Verità che Florenskij vede come atto-sostanza-relazione, ossia unità dinamica dei Tre totalmente diversi che sono unico Dio.
Ed è quest’unità trinitaria a rappresentare il fondamento ideale dell’ordine eterno dell’essere. Infatti, esiste veramente solo ciò che appartiene a esso: da un lato, a tale ordine partecipa, misteriosamente, tutto il creato in quanto posto in essere dalla volontà creatrice di Dio-Trinità; appartiene a esso l’uomo, fatto a immagine e somiglianza di Colui che l’ha creato. Ne fa parte, inoltre, anche tutto ciò che l’uomo crea, in primis la sua personalità e poi tutte le concretizzazioni vitali e culturali delle sue idee. Questo, però, solo se tali creazioni umane rispecchiano la dinamica dell’ordine eterno dell’essere: l’amore per un altro da sé.
Florenskij interpreta la rivelazione di Dio in Gesù Cristo come parola ultima e definitiva su questa Verità e, insieme, come giudizio su ciò che, nel mondo, è destinato a perire, perché privo del legame con l’ordine eterno dell’essere. Questo è il destino del male. Quella realtà che non sopporta i criteri di tale ordine, che con esso non ha nessuna parentela. La terminologia religiosa la chiama “peccato”, sottolineando così il legame tra il male e la libertà dell’uomo. Gli effetti devastanti del male, del peccato non sono fittizi. Eppure quanto all’ordine dell’essere, la consistenza ontologica di essi è effimera, nulla. E gli altri “mali”? Quali, a esempio, le catastrofi naturali o le malattie? Cosa rispondere al pianto di Giobbe che riecheggia senza fine da tutti gli angoli del mondo? Florenskij invita a rispettare il mistero di tali situazioni e a considerare l’esperienza del dolore parte essenziale della vita umana.
Certo, bisogna fare tutto il possibile per prevenire le catastrofi naturali, occorre lottare contro le malattie ed è necessario che si evitino sfortune di ogni tipo. Tuttavia, se tali eventi si verificano, essi vanno accolti come esperienze del tutto particolari della complessità del reale, che costringono l’uomo a guardare la vita come luogo dei numerosi paradossi, sì, i quali, però, non possono essere scomposti nei frammenti privi di un senso unitario. Nemmeno se si tratta del paradosso i cui due poli sono il vivere e il morire. In merito Florenskij cita Dostoevskij: “In tutto c’è il mistero di Dio”, anche nella sofferenza più atroce e nella morte.
Una simile impostazione del problema del male non dispensa comunque dall’interrogarsi sul Dio Creatore. Egli può essere pensato ancora come Onnipotente? Dov’è Lui quando il creato viene devastato, quando l’uomo soffre e, soprattutto, quando l’innocente, pugnalato dal sanguinario aguzzino, lancia l’ultimo grido di dolore? Forse ha abbandonato l’opera delle Sue mani?
La riposta di Florenskij è affine a quella di quanti in Russia – da Dostoevskij fino a Bulgakov e Karsavin – hanno parlato di un Dio “umile”, misteriosamente rispettoso di fronte alla volontà e all’attività “creativa” degli uomini, amministratori degli spazi di vita da Lui progettati proprio per loro. Dio si comporta come chi dopo aver depositato nel terreno dell’essere la “moneta” della Sua stessa immagine, lascia che siano gli uomini a cercarla e moltiplicarla, o a ignorarla e seppellirla ancora di più. Da parte sua Florenskij predica la fedeltà a questa “terra”, a questo mondo. Per lui la storia della salvezza, che culmina con la rivelazione di Dio-Trinità in Cristo, è un invito a credere nella bontà intrinseca della vita in sé e di tutto il creato. Invito a riscoprire Dio presente nel mondo e ad aprirgli la porta come a un umile pellegrino che pazientemente attende dietro la soglia. Quel Dio che con la potenza del Creatore è pronto a donare all’uomo la sapienza originaria che Egli depositò nelle radici dell’essere: l’ingegnosa sapienza dell’amore trinitario.
Allo stesso tempo, Florenskij insegna che, nelle situazioni di male e di ogni tipo di sofferenza, la via aurea dell’avvicinamento dell’uomo a Dio e all’ordine eterno dell’essere è la povertà di sé, da comprendere nel senso più profondo della parola biblica anawîm. Essa consiste in un totale spogliamento di sé, nello strappare da sé il proprio “io sono”, “io voglio”, “io penso”, vissuto non tanto come gesto di autoumiliazione ascetica, quanto piuttosto come scelta di essere un dono di amore per un altro. In altri termini, si tratta di uscire da sé, per offrire lo spazio del proprio essere a un altro da sé. Il che, però, coincide con l’entrare soavemente nello spazio di vita di un altro e con la misteriosa ricreazione di una rinnovata coscienza di sé. Con la Sua morte e risurrezione, Gesù Cristo ha reso possibile proprio quest’esperienza di verità della vita. Come dice Massimo il Confessore: “Colui che ha conosciuto il mistero della croce e del sepolcro conosce anche le ragioni essenziali di tutte le cose”.
La fede di Florenskij in Dio Amore e la sua fedeltà alla “legge nuova” nelle condizioni disumane e terrificanti del gulag staliniano sono la migliore apologia della sua teodicea trinitaria. Una teodicea scritta e vissuta con la ferma convinzione che non vi è altra via verso il superamento definitivo del male che l’amore.
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