da L’Osservatore Romano, 8 aprile 2010
Fiducia nella ragione di fronte alla sfida dell’indifferenza
L’importanza del concilio Vaticano ii per il confronto con il mondo contemporaneo
Pubblichiamo stralci di una prolusione pronunciata dall’arcivescovo segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica all’Università Cattolica del Sacro Cuore su “Il Vaticano ii davanti a noi”. Sullo stesso tema il presule è intervenuto a Parigi nell’ultima “conferenza di Quaresima” tenuta nella cattedrale di Notre-Dame.
di Jean-Louis Bruguès
Si racconta che, interrogato sull’importanza storica della Rivoluzione francese, Zhou Enlai, all’epoca primo ministro del presidente Mao, avesse risposto: “È ancora troppo presto per dirlo”. Una simile prudenza non sarebbe forse appropriata quando si tratta di valutare le ripercussioni del concilio Vaticano ii? L’impatto dei concili si può valutare solamente con le lenti del lungo termine. Di quanto tempo ha avuto bisogno la Chiesa per misurare la profondità delle riforme volute dal concilio di Trento, o la portata del Laterano iv, nel 1215, che definisce la fede cattolica in opposizione alle eresie catare, o del concilio di Nicea, all’aurora della nostra teologia, completato, più che corretto, da quello di Calcedonia, che ha marcato la nascita del Credo che ancora sostiene la nostra fede, a circa millesettecento anni di distanza? Ciò che sembrava determinante in quel momento è stato cancellato nell’arco di pochi anni, mentre le generazioni più lontane ne raccoglievano dei frutti inattesi.
Indossare tali occhiali ci obbliga, evidentemente, a superare le passioni del momento: che cosa resterà domani delle polemiche del tempo presente? Una simile scelta ci costringe anche a perdere un po’ di vista la pertinenza di questo momento unico: non si tratta affatto di negare il carattere decisivo di questo avvenimento, non solo per la Chiesa, ma per il mondo moderno. Il generale De Gaulle, che di storia se ne intendeva, confidò un giorno che considerava il concilio Vaticano ii l’avvenimento più importante del xx secolo. In ogni caso, quel secolo è ormai passato. L’elenco dei testimoni diretti, per non dire degli attori, si fa ogni giorno più scarno e più sottile; presto si cancellerà completamente. La caratteristica propria degli avvenimenti è di trascorrere, e non servirebbe a niente voler mantenere un qualsiasi spirito del concilio al di là delle generazioni, e persino al di là dei testi. Lo spirito non sopravvive al tempo se non si incarna negli scritti e nelle pratiche. Arriva immancabilmente il giorno in cui le più profonde riforme hanno bisogno, a loro volta, di essere riformate. “Tutto è sempre da riformare”, sospirava il Maestro di Santiago. Il tessuto della storia della Chiesa si trova così costituito da una fitta trama di riforme sempre rinnovate.
Mi capita spesso di restare incantato davanti a una tela. Con i suoi ampi piani in grigio, ocra e beige, il quadro si propone di farci entrare in un clima di armonia. Sulla sinistra, in alto, in piedi e come distesi su una linea musicale, le mani nascoste nelle larghe maniche di una semplice tunica chiara, quattro personaggi si sono messi a parlare. Non si vedono, tuttavia, né i loro occhi né le loro bocche. Formano un coro, un quartetto; ciascuno dei volti, fortemente stilizzato, guarda in una direzione differente, forse un punto cardinale. A destra, un altro personaggio sembra seduto su una seconda linea musicale collocata sotto la prima; i suoi vestiti più scuri fanno pensare che svolga un ruolo centrale nella composizione immaginata dal pittore. Non solleva gli occhi, non guarda da nessuna parte, tende il capo verso quelli che lo sovrastano. Questo personaggio ascolta in prima istanza non con i sensi ma nel più profondo di se stesso. C’è in questa composizione come una reminiscenza della filosofia di Emmanuel Lévinas, che ci ricordava che l’altro ci sovrasta sempre e che siamo venuti al mondo in debito, ai piedi di quella scogliera. Il pittore, Tong, ha intitolato la sua opera semplicemente L’ascolto degli altri. Ascoltare è una delle parole più utilizzate nella Bibbia. “Ascolta, Israele” (Deuteronomio, 6, 4): così cominciava, nella prima Alleanza, ogni espressione del Signore nel rivolgersi al suo popolo.
Mi è sembrato che questo quadro parlasse anche del nostro ultimo concilio. Meglio ancora, che ne fornisse una chiave d’interpretazione: il Vaticano ii ha voluto collocare l’ascolto degli altri al centro della Chiesa, della società, in fin dei conti, di ogni vita umana. Questo ascolto si declina in tre proposizioni: il gusto dell’altro, la sollecitudine per l’altro, infine la percezione di se stesso come un altro. Ciascuna di esse dovrebbe permetterci di avviare delle “forti tendenze”, per parlare come gli economisti, che irrigheranno probabilmente il nostro futuro.
Dal Vaticano ii in poi, il magistero recente della Chiesa ha insistito sull’azione universale dello Spirito nel mondo: il fatto è che il gusto dello Spirito Santo, così come l’abbiamo appena descritto, conduce naturalmente alla preoccupazione per l’altro. Chi è questo altro? L’altro, è in prima istanza il più lontano, che si tratta di avvicinare e di apprezzare. Nelle relazioni del cristianesimo con le religioni che non fanno riferimento a Cristo, il concilio ha provocato una sorta di rivoluzione copernicana. Due documenti promulgati nel 1965 illustrano questa svolta: la dichiarazione Nostra aetate riguardante le relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane che, con il tempo, è diventata uno dei testi più decisivi del concilio, e la dichiarazione Dignitatis humanae sulla libertà religiosa. Il concilio si è riferito a due nozioni in realtà molto tradizionali, quella dei “semi del Verbo” (decreto Ad gentes, 11), che ispira l’azione degli uomini di buona volontà al di là della diversità delle confessioni, e quella del rispetto delle coscienze, che non possono essere obbligate, per mezzo di una costrizione esterna, ad aderire a una fede, qualunque essa sia. Si è pronunciato con queste parole, che costituiscono una traccia per il nostro avvenire: “La Chiesa cattolica non rigetta nulla di ciò che è vero e santo in queste religioni. Considera con rispetto sincero questi modi di agire e di vivere”. Dalle dichiarazioni di Paolo vi al viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa, l’anno scorso, l’insegnamento magisteriale si batte, con una continuità lodevole, in favore di un dialogo rispettoso e sincero tra gli adepti delle diverse religioni. Questa sollecitudine per i più lontani, in cui scopriamo una terza tendenza forte, arricchisce le conoscenze reciproche e purifica, su questo o quell’aspetto, la comprensione che i fedeli avevano delle proprie credenze. Non dimentica, tuttavia, di sottomettere la teologia cristiana a domande difficili: qual è il posto di Cristo nell’azione salvifica delle religioni non cristiane? Il fatto che non sia presente in esse alcuna conoscenza di Cristo esclude forse una qualsiasi partecipazione all’azione del Verbo di Dio disseminata tra le nazioni? Dio avrebbe potuto scegliere altri mediatori diversi da Gesù Cristo, come sostiene oggi la cosiddetta corrente pluralistica? Contro quest’ultima, la Congregazione per la Dottrina della Fede aveva pubblicato, nel 2000, la dichiarazione Dominus Iesus, nella quale venivano ricordate “l’unicità e l’universalità salvifica di Gesù Cristo e della Chiesa”.
L’altro è anche il fratello separato. La sollecitudine per l’altro mira, in questo caso, ad avvicinare le pratiche e le convinzioni, a superare progressivamente le barriere erette dalla storia e dal peccato. Il Vaticano ii nel suo decreto Unitatis redintegratio, votato nel 1964, aveva affermato che il ristabilimento dell’unità tra tutti i cristiani rappresentava una delle sue preoccupazioni principali. La Chiesa era stata fondata una e unica da Cristo; le divisioni tra i cristiani, dunque, costituivano un rifiuto della volontà del Signore e uno scandalo per il mondo. Quattro decenni di dialogo ecumenico hanno fatto cadere numerosi pregiudizi; alcuni ponti sono stati costruiti tra punti di vista giudicati inconciliabili. Ne è risultata una migliore comprensione delle relazioni tra la Scrittura e la Tradizione, della natura della Chiesa e dei sacramenti del battesimo e dell’eucarestia.
L’altro, ancora, è qualsiasi persona, ogni uomo che abita questo mondo. La sollecitudine per l’altro conduce allora alla sollecitudine per il mondo. Un concilio non avrà mai il potere di un Giosuè: non ferma la storia. È diventato banale riconoscere che, durante gli ultimi quarant’anni, l’accelerazione della storia è stata senza precedenti. Il concilio si è limitato appena a intravedere l’avvento della globalizzazione delle economie e delle culture; non poteva prevedere la cancellazione delle ideologie, né la caduta del muro di Berlino, né l’apparizione di ipotesi che rievocano un conflitto delle civiltà, né i prodigiosi progressi della biologia applicata al corpo umano, né le inquietudini, ogni giorno più accentuate, per la salute del nostro pianeta. Parlava ancora di ateismo, quando la maggiore sfida lanciata alle religioni sarà domani quella dell’indifferenza e della perdita d’interesse per tutto ciò che ha un senso. L’ateismo moderno non è la negazione di Dio, ma l’indifferenza assoluta che si trova nell’opera maggiore di Lévi-Strauss, Tristi tropici. Dirò senza esitazioni che si tratta del libro più ateo che sia stato scritto recentemente, il più disorientato e il più disorientante. Tuttavia, possiamo affermare che il Vaticano ii abbia inculcato nei cristiani quello che chiamerò un principio di benevolenza verso il mondo così com’è, nel quale possiamo scoprire una quinta tendenza di lungo termine.
È in questo mondo, così concreto, così carnale, talvolta così ombroso, e assolutamente non in quello idealizzato delle utopie che, come affermava Gaudium et spes, lo Spirito continua a scrivere la bella storia della salvezza. Questo mondo, Dio lo ama: come non essere presi di sollecitudine nei suoi confronti?
Questa sollecitudine, da allora, non si è più smentita. Basandosi sulla Costituzione conciliare, i cristiani hanno sviluppato un’etica dei diritti umani che ha dato a questo mondo come un nuovo peso di grazia. La coscienza delle nazioni se ne è trovata fecondata. Il comunismo sovietico ha restituito un’anima che non aveva mai avuto; alcune dittature hanno ceduto sotto la pressione del popolo. Molto spesso – qui penso in particolare all’America Latina – la Chiesa si è ritrovata tra le forze del rinnovamento sociale. Il pericolo che si presenta oggi è che si faccia di questi diritti una retorica un po’ vuota, mentre il più fondamentale di essi, il diritto alla vita, come ricordava l’enciclica Evangelium vitae del 1995, viene negato ogni giorno a migliaia di esseri umani all’aurora della loro esistenza. Questa sollecitudine verso il mondo moderno, infine, impone alla Chiesa di rivedere da cima a fondo la sua missione e le modalità della sua presenza. La secolarizzazione ha modellato la società in un modo che non si era mai visto nel passato: occorre dunque che i cristiani inventino – e la parola non è troppo forte – una “nuova evangelizzazione”, un’evangelizzazione della cultura e per la cultura. A società nuova, evangelizzazione rinnovata. Possiamo affermare che tutte le forze vive della nostra Chiesa abbiano preso le misure di questo bruciante obbligo?
Il discorso che fa Benedetto XVI è ancora più audace. Abbiamo ben presente che la modernità è stata costruita su un atto di fede nella ragione umana. Ora, da Auschwitz in poi, questa ragione conosce un’eclissi, secondo la felice espressione della scuola di Francoforte, che immerge la modernità nell’amarezza dei dubbi e delle tentazioni del nichilismo. Per salvare quest’ultima dal proprio disincanto, dunque, bisogna restituire fiducia nell’uso della semplice ragione umana, nella sua capacità di raggiungere un ordine di verità. È questo gigantesco compito di ribaltamento, già abbozzato dall’enciclica Fides et ratio, del 1998, che il pontificato attuale ha scelto come linea direttrice della sua missione.
© L’Osservatore Romano
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