da L’Osservatore Romano, 12 maggio 2010
Il mandarino di sant’Ignazio
Quattrocento anni fa moriva Matteo Ricci
di Manlio Sodi
“Perseverando nella stessa allegrezza, seduto al centro del letto, con molta pace e serenità, senza alcun movimento, chiudendo gli occhi come per dormire o per contemplare, diede l’anima al suo Creatore, dopo aver baciato il Crocifisso e l’immagine del nostro beato padre Ignazio, martedì, agli undici di maggio (1610), alle sette ore della sera”. È la testimonianza di De Ursis (Fonti Ricciane II, 543) circa la morte a Pechino del gesuita Matteo Ricci che era nato a Macerata il 6 ottobre 1552.
Chi conosce da vicino l’opera di Matteo Ricci si meraviglia che tanta attenzione si ponga più sul versante laico e culturale che non su quelle che sono state le vere intenzioni del missionario. Al di là, comunque, delle perplessità, resta emergente il richiamo all’intelligenza di un uomo – e soprattutto di un religioso appartenente alla Compagnia dei figli di Sant’Ignazio, i gesuiti – che aveva ipotizzato e messo in atto un percorso culturale per far incontrare il popolo cinese con il Vangelo.
Notissima è – almeno nel nome – la questione dei “riti cinesi” (tolleranza verso il “culto” [cerimonie] degli antenati e verso Confucio). E il titolo riconduce sempre l’attenzione a Matteo Ricci. È necessario però precisare subito che Ricci non ha mai trattato espressamente di liturgia; solo dopo la sua morte è esplosa la questione che ha dato adito a prese di posizione ufficiali da parte del Magistero, sia pur con gravi conseguenze per la evangelizzazione nel contesto della cultura cinese.
Se allora il missionario gesuita non ha trattato dei riti, per quale ragione se ne parla con riferimento a questo ambito? Nella problematica relativa all’incontro tra Vangelo e cultura si muove tutto ciò che rientra nel contesto dell’adattamento e soprattutto dell’inculturazione. In questa ottica, Vangelo e culto diventano speculari in ordine a un percorso di fede che ogni cultura è chiamata a realizzare senza dubbio con l’aiuto e con il contributo di altre culture come quelle, già evangelizzate, dei missionari che si muovono dalla propria cultura per incontrarsi con altre talora radicalmente diverse da quella di provenienza.
Di tutta questa realtà la grande stampa non si preoccupa, a stento recepisce qualche battuta, ma non entra nel merito, perché cogliere questo aspetto implica confrontarsi con il contenuto del Vangelo e con la dimensione missionaria della Chiesa, con la cultura semitica in cui questo è stato espresso e codificato, e poi mettersi in dialogo – attraverso un’opportuna metodologia – con la cultura destinataria dell’impegno missionario.
Adattamento e inculturazione sono due aspetti di una stessa sfida che la Chiesa sempre ha avuto davanti a sé. Fin dal tempo della prima Pentecoste, l’incontro con le culture è stato il motore per far sì che ogni popolo e cultura potesse ritrovare nell’incontro con il Vangelo lo specifico positivo del proprio costitutivo culturale. Da qui l’assunzione di concetti provenienti dalla cultura semitica; ma da qui anche l’acquisizione di termini nuovi coniati per esprimere contenuti essenzialmente biblici.
In questo senso l’opera dei Padri della Chiesa costituisce una “pagina” quanto mai ricca ed eloquente. Ma la storia non si è fermata a essi. In ogni tempo la saggezza dell’opera missionaria, intesa in senso lato, ha saputo coniugare lo specifico rapporto tra Vangelo, culto e cultura dando vita alle grandi famiglie dei riti orientali e occidentali, e successivamente dando forma e significato a metodi di annuncio e a forme celebrative che in parte sono rimaste e in parte sono state riassorbite nelle forme originarie del culto cristiano.
Fare esempi è sempre rischioso, ma non ci possiamo esimere in questo ambito dal riferirci all’opera dei santi Cirillo e Metodio che hanno avuto l’approvazione e il plauso della Chiesa di Roma. Numerosi altri aspetti sono forniti dalla storia dell’evangelizzazione con esempi emblematici quando, per esempio, il Vangelo si è incontrato con le culture del Nuovo Mondo da poco scoperto.
Diversa è la situazione della Cina. Varie famiglie religiose avevano tentato un incontro tra Vangelo e cultura. Il vero incontro, la soluzione del problema scaturisce dall’intuizione e dall’opera del Ricci. Comprendendo bene che solo arrivando alla classe alta della società – e soprattutto all’imperatore – si poteva avere la chiave per un incontro tra Vangelo e cultura, egli mette in atto ciò che poteva contribuire per un dialogo a quel livello. Da qui il discorso prettamente culturale compiuto dal Ricci con la sua opera, a cominciare dal far conoscere i classici dell’occidente, la geometria, la matematica, l’astronomia, la cartografia, gli orologi, e così via.
Se da una parte tutto questo fa comprendere il tipo di preparazione che veniva compiuta nel Collegio Romano, dall’altra permette di cogliere l’orizzonte culturale che permeava un certo percorso formativo per coloro che dovevano dedicarsi alla teologia: l’accostamento delle scienze non era un metodo solo per essere in linea con la cultura del tempo, ma un’occasione per leggere – e annunciare – il dato teologico in un orizzonte che permetteva di dialogare con la cultura del tempo (al di là del “caso Galileo”).
Ma tutto questo in quale senso chiama in causa l’ottica liturgica? Al tempo di Matteo Ricci questo rapporto con il culto non emergeva in modo immediato, data la limitata concezione di liturgia e la relativa prassi. L’incontro però della mens semitica e mediterranea in genere con la cultura cinese, e buddhista in particolare, faceva emergere il bisogno di tradurre in nuove categorie il mistero dell’incarnazione e le sue conseguenze. Da qui dunque l’attenzione che sommessamente stava emergendo anche in contesto cultuale.
Nel “sommessamente” è racchiuso il fatto della impossibilità di fare adattamenti profondi in liturgia – impensabile al tempo della Riforma cattolica almeno per ciò che concerne la celebrazione dell’Eucaristia. Ma vi è nascosto anche il bisogno di trovare modalità espressive per manifestare concetti più facilmente assimilabili, a cominciare dal nome di Dio!
È dunque nella ricerca della terminologia adeguata e nella individuazione di alcune cerimonie – che subentreranno dopo la morte del Ricci – che si impernierà la problematica dei “riti cinesi”: una problematica che scatenerà una serie di contrapposizioni all’insegna di gelosie e invidie (paradossale – ma non inusuale – in contesto di evangelizzazione!) che porteranno alla chiusura di un progetto di cui ancora oggi se ne portano brucianti conseguenze. Non per nulla Pio xi attribuì alla “maledetta questione dei riti” una grave responsabilità nel ritardo dell’evangelizzazione della Cina.
Riflettere dunque su una simile problematica implica accostare un aspetto che caratterizza in modo essenziale la realtà liturgica. La riforma promossa dal Vaticano ii ha compiuto finora passi eloquenti. Basti vedere tutto ciò che è suggerito o richiesto attorno al capitolo de aptationibus… che caratterizza ogni libro liturgico; basti tener presente l’Istruzione Varietates legitimae (25 gennaio 1994) circa l’inculturazione della liturgia romana. Senza forzare i dati della storia, ci sembra di essere oggi testimoni di un metodo che Matteo Ricci aveva ipotizzato e in parte posto le premesse per attuarlo.
La risposta all’interrogativo richiede un confronto con elementi che costituiscono adeguati indicatori anche per l’oggi e per il domani.
Il complesso filone dei “riti cinesi” contempla come sua base il grande rispetto che Matteo Ricci ha avuto e ha manifestato nei confronti della cultura e della religiosità cinese. La sua tolleranza verso il “culto” (cerimonie) degli antenati non era accondiscendenza a un atteggiamento in contrasto con il culto cristiano, ma il riconoscimento di una “devozione” agli antenati che si inscrive pur con modalità diverse in ogni cultura che esprime tutto questo con forme di ritualità che non impegnano la fede in un Essere superiore. Lo stesso si dica delle espressioni e atteggiamenti nei confronti di Confucio. È una lezione anche per oggi, quando avviene l’incontro tra culture e Vangelo.
Altrettanto complessa è stata la questione terminologica relativa al nome di Dio, espresso dal Ricci con l’equivalenza del significato relativo alla parola “Cielo” e di “Sovrano supremo” usati come ponti per introdurre il concetto di Dio. Si pensi, al riguardo, all’impegno di inculturazione attivato con l’opera: Genuina nozione del Signore del Cielo (Pechino, 1603). È una lezione anche nell’oggi, quando avviene l’incontro tra culture, sistemi linguistici e messaggio biblico da tradurre.
L’incontro tra culture è spesso uno scontro, ma l’annuncio del Vangelo non può mai risolversi in uno scontro ideologico. Al contrario, ciò che di vero è presente in ogni singola cultura costituisce la base su cui innestare un dialogo che si apra all’accoglienza reciproca. L’atteggiamento di Matteo Ricci risulta emblematico in vista del favorire una comunicazione e un dialogo tra uomini, popoli e civiltà a partire da ciò che di più prezioso una possa offrire all’altra. Ricci ha iniziato con le discipline sopra ricordate e con strumenti frutto di intelligenza per guardare poi il cielo e osservare la realtà anche dal versante filosofico. Ma tutto questo a partire da un dato di fatto essenziale: l’amicizia, e da un progetto: realizzare il contatto con l’imperatore perché tutto dipendeva da lui. Di grande interesse l’affermazione del confratello Michele Ruggieri (1543-1607) al padre generale Acquaviva: “In breve, siam fatti cini ut Christo sinas lucrifaciamus” (Ci siamo fatti cinesi per guadagnare a Cristo la Cina: Opere storiche del P. Matteo Ricci, ii, Macerata, 1913, 416).
La rilettura della complessa metodologia ricciana in ordine all’evangelizzazione ripropone all’attenzione di chi opera in contesto liturgico il capitolo dell’adattamento e dell’inculturazione. Capitolo sempre aperto, in verità, pur con fasi e accenti diversi. In tempi recenti questa è una pagina che si è notevolmente sviluppata, soprattutto in seguito alle traduzioni della Bibbia, all’attuazione della riforma e del rinnovamento liturgico, e alla celebrazione dei sinodi continentali.
Ma il cammino attende ancora di proseguire perché ogni popolo possa lodare e invocare Dio valorizzando gli elementi specifici della propria cultura. È la conseguenza propria del mistero dell’incarnazione del Cristo.
© L’Osservatore Romano
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