da L’Osservatore Romano, 14 aprile 2010
La leggenda dell’anello mancante
Aspettative deluse dallo scheletro di Sterkfontein
di Fiorenzo Facchini
Le agenzie di stampa lanciavano nei giorni scorsi il ritrovamento dell’anello di congiunzione tra la scimmia e l’uomo. È un mal vezzo l’uso di questa espressione, ogni volta che c’è un nuovo fossile che interessa l’evoluzione dell’uomo, perché non c’è stata una evoluzione lineare. È più corretto parlare di forme intermedie o eventualmente connesse con la linea umana.
In ogni caso lo studio pubblicato su “Science” sui nuovi reperti sembra ridimensionare la scoperta che conserva comunque un suo valore. I reperti, ritrovati nel Sud Africa in una grotta non molto distante da Johannesburg e da Sterkfontein (la nota località che nel 1947 aveva fornito il cranio di Plesiantropo (o Australopithecus transvaalensis), risalgono a due milioni di anni fa e sono stati riferiti a un individuo di 11-12 anni appartenente a una nuova specie, Australopithecus Sediba (Sediba nella lingua locale significa “buon inizio”).
Il fatto che sia stato trovato uno scheletro parziale, e non un reperto isolato, rappresenta il maggiore interesse per la ricchezza di informazioni che può offrire, ma rende anche più problematica l’interpretazione. Infatti i reperti hanno caratteristiche riferibili all’Australopiteco africano, cioè a una forma sicuramente non umana (da sottolineare la bassa capacità cranica: 420 cc), che si ritrova già tre milioni di anni fa, ma presentano anche qualche tratto che li differenzia dagli Australopiteci e richiamerebbe il genere Homo, identificato da molti autori in Homo habilis e Homo rudolfensis, di 2-2,5 milioni di anni fa, vissuti quindi in epoca anche più antica del fossile rinvenuto.
Il nuovo reperto va ad arricchire la rete di ominidi non umani, rappresentata dalle forme australopitecine che hanno preceduto la comparsa dell’uomo. Fra di esse si cerca di individuare i fossili che potrebbero avere maggiore interesse per un collegamento con la forma umana, anche se non per un’ascendenza diretta. Qui va tenuto presente il concetto di parentela che viene ammesso per i diversi raggruppamenti dei primati, uomo compreso, anche se rimane problematico e poco pertinente parlare di anello mancante, proprio perché pare non ci sia stata una evoluzione lineare, ma piuttosto di tipo reticolare.
Si può parlare di antenato della forma umana, senza che ciò significhi una derivazione dalla scimmia, una espressione molto frequente quando si parla di evoluzione dell’uomo, ma impropria. Se pensiamo alle scimmie che conosciamo, dobbiamo dire che non siamo scimmie e non siamo figli di scimmie.
Tra l’altro, rispetto alle Antropomorfe (i Primati meno lontani dall’uomo dal punto di vista biologico), ci separa una storia di sei-sette milioni di anni, pur ricollegandosi sia gli Ominidi che le Antropomorfe a un ceppo comune dei Primati.
Si dovrebbe più correttamente dire che la comparsa dell’uomo sulla terra si connette a un ominide divenuto capace di autocoscienza e di libertà. È questo un passaggio che sul piano filosofico corrisponde a una “discontinuità (o salto) ontologica”, espressa nel comportamento culturale, e chiama in causa, in una visione aperta al trascendente, il concorso di Dio creatore a motivo della specificità spirituale dell’uomo.
Quanto all’identificazione di questo momento nel processo della ominizzazione, la discussione rimane aperta e riguarda soprattutto la scienza. La identificazione anatomica del genere Homo, dal punto di vista tassonomico, non implica la identificazione dell’uomo in senso filosofico, capace di pensiero astratto e di libertà, per il quale si dovrebbe fare riferimento soprattutto al suo comportamento, non soltanto alle espressioni strettamente simboliche quali l’arte o le sepolture, ma anche ai prodotti della tecnologia che debbono rivelare capacità di progetto, di simbolizzazione e di autodeterminazione.
© L’Osservatore Romano
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