da L’Osservatore Romano, 14 aprile 2010
Un fantasma nei geni
Il Dna non svela i segreti della vita
di Carlo Bellieni
La vita non è semplice e riducibile a nostri schemi. Ne è un esempio lo studio del Dna. Notizia recente è che chi pensava che il Progetto genoma svelasse il segreto della vita deve ricredersi: appena nata, la decifrazione del genoma umano come spiegazione della vita è già vecchia, tanto che l’agenzia scientifica “Nova” titola: Un fantasma nei tuoi geni per spiegare come un secondo genoma tutto ancora da scoprire agisca sul Dna.
L’ultimo numero della rivista della American Society for Cell Biology (aprile 2010) si dilunga su come insegnarlo al pubblico e nelle università; Eva Vermuza su “Menome” del 2003 già scriveva: “Come può una molecola composta di soli quattro elementi generare tanta complessità? La risposta semplice è che il Dna non lavora da solo”. Non è fantascienza, ma epi-genetica: le informazioni del nostro Dna vengono cioè influenzate dall’ambiente che, attraverso un sistema di molecole interno alla cellula, agisce sopra (epi) il dna (genetica). E questo sistema di regolazione superiore agisce come un vero e proprio lettore per il Dna che risulta simile a un cd: pieno di musica ma inerte senza l’apparecchio che lo sa leggere. Dunque la sola decifrazione del genoma – certo ottima a fini terapeutici – è un passo ancora primordiale nella comprensione del funzionamento delle strutture biologiche. E Manel Esteller su “Lancet” del gennaio 2006 ha ben ragione di scrivere: “Noi non siamo i nostri geni. Non possiamo prendercela solo coi geni per il nostro comportamento o per la nostra suscettibilità alle malattie”: la vita non è assimilabile e riducibile alla sequenza delle basi del Dna.
Insomma, chi crede di leggere il genoma e capire la vita si sbaglia di grosso: il numero di geni dei mammiferi è simile, ma diverso è il sistema superiore incaricato della lettura, legato alla genetica e all’ambiente. Per non parlare delle differenze morali. Scrive ancora Manel Esteller: “Uno dei risultati più sorprendenti del confronto dei genomi di varie specie animali è quanto simili essi siano. Il genoma del topo non differisce molto da quello dell’uomo. Come possiamo allora spiegare le differenze?”. L’epigenetica, ovvero la supervisione dell’ambiente sul Dna, è un’introduzione a questa risposta: l’espressione della vita non dipende solo dal Dna, ma da come questo viene fatto parlare dall’ambiente, introducendo a un’armonia che supera la mera casualità.
Non stupisce quindi che gli studi sull’ereditarietà dei cambiamenti epigenetici, come quelli dell’americano Michael Skinner, direttore del Centre for Reproductive Biology a Washington, abbiano dei riflessi anche sul concetto di evoluzione, certamente tutti da valutare e soppesare con attenzione, ma che non possono essere sottaciuti, dato che appare che l’ambiente può inibire l’espressione di un gene – e non più solo selezionare mutazioni casuali dei geni stessi – e questa inibizione viene trasmessa alle generazioni successive. I cambiamenti fisici, dunque, non avverrebbero solo per mutazioni casuali del Dna, ma anche in seguito a inibizioni da parte dell’ambiente sull’espressione di alcuni geni. Didier Raoult sempre sulla rivista “Lancet” (gennaio 2010) spiega che addirittura il patrimonio genetico può nei secoli mutare per l’interazione con altre specie viventi.
Si apre così, indubbiamente, un nuovo scenario che lascia intravedere che non solo il caso governa lo sviluppo della vita, ma che esistono una collaborazione e un’interazione tra ambiente e genetica in cui l’ambiente ha la funzione di catalizzatore e organizzatore. “Gli ecosistemi si evolvono per co-evoluzione e auto-organizzazione”, spiega il chimico Enzo Tiezzi, premio Prigogine 2005, nel suo Steps Towards an Evolutionary Physics (2006) indicando che l’evoluzione non è cieca, o perlomeno non è una folle corsa: “L’avventura dell’evoluzione biologica è un’avventura stocastica, dal greco, che significa, “mirare con la freccia al centro del bersaglio””: come le frecce arrivano in ordine sparso sul bersaglio, ma tutte protese verso il centro da parte dell’arciere, così anche l’evoluzione appare avere un’armonia di base. “Purtroppo – spiega ancora Vermuza – tra gli evoluzionisti c’è un’aura di deificazione di Darwin, che tende a soffocare il dibattito”. Questo anche se, come fa Matt Ridley sul “National Geographic” del febbraio 2009, si può riconoscere che, nonostante delle geniali intuizioni, “le idee di Darwin sul meccanismo dell’ereditarietà erano sbagliate e confuse”. L’epigenetica offre una visione nuova dello sviluppo della vita sulla terra, che non suona più come una lotta per la sopravvivenza in base a mutazioni casuali, ma appare la possibilità di un’armonia in cui si nota sorprendentemente, invece di una spietata competizione, una possibile collaborazione.
Ma c’è un ultimo aspetto che l’epigenetica illumina: l’effetto dell’ambiente sul Dna può essere anche legato a un intervento umano. Dei ricercatori del Maryland su “Fertility and Sterility” del febbraio 2009 scrivono: “È stato chiaramente dimostrato che stimolazioni ovariche e manipolazioni dell’embrione associate con la Fiv (fecondazione in vitro) sono causa di disordini dell’imprinting genomico nell’animale. E la percentuale di malattia di Angelman o Beckwith-Wideman causate da difetti dell’imprinting genomico in bimbi nati da Fiv è molto maggiore che negli altri, rafforzando la nozione che la Fiv causi disordini dell’imprinting”. Il Dna è fragile e in certi casi porta memoria di ciò che lo influenza, come è ben spiegato anche sulla rivista “Reproductive Health” (ottobre 2004): “Una potenziale alterazione dell’imprinting genomico potrebbe risultare dalla manipolazione dell’embrione nelle prime fasi”. Questo non significa un’equazione tra manipolazione e malattia, anche perché queste malattie sono rarissime e gli studi vanno approfonditi, ma mostra una necessità di cautela: tanta delicatezza merita davvero un surplus di rispetto.
© L’Osservatore Romano
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