da L’Osservatore Romano, 10 gennaio 2010
Il gonfalone della vittoria
Morte e resurrezione nell’interpretazione dei grandi artisti
di Timothy Verdon
“Muoio, dice il Signore, per vivificare tutti per mezzo mio”. Queste parole, che un Padre della Chiesa, san Cirillo d’Alessandria, s’immaginava sulla bocca di Cristo, suggeriscono il vero significato della Santa Sindone nella vita della Chiesa: non tanto una reliquia di sofferenza e mortalità, ma il segno della vittoria: della tomba vuota, del sudario abbandonato, della vita che trionfa sulla morte. Tale vittoria coinvolge poi ogni uomo, non solo il Salvatore: “Con la mia carne ho redento la carne di tutti”, prosegue Cristo nel testo di san Cirillo, spiegando che “la morte infatti morrà nella mia morte e la natura umana, che era caduta, risorgerà insieme con me”.
Questa universale e definitiva vittoria è visualizzata in un capolavoro del Rinascimento d’oltralpe: un pannello dell’altare di Isenheim, opera del tedesco Matthias Grunewald, dove Cristo esplode dal sepolcro ancora avvolto dalla Sindone, la quale viene gradualmente impregnata della sua nuova condizione, colorata dalla luce che lo circonda. In questa composizione divisa in due parti, Cristo risorto in alto e i soldati messi a sorvegliare il sepolcro sotto di lui, è infatti la Sindone a collegare la terra e il cielo; e laddove nella parte inferiore i militi sono supini o curvi – intorpiditi dal sonno e spaventati – in alto Cristo sorge eretto e libero, il suo corpo nudo sotto la Sindone sciolta mentre le guardie rimangono imprigionate nelle pesanti armature; libero è anche il volto del salvatore – schietto e gioioso – in contrasto alle facce coperte e ombreggiate delle guardie. Numerosi dettagli, e soprattutto le armi inutilmente impugnate dai militi evocano lo scontro celebrato nell’antica sequenza pasquale, dove si narra che “morte e vita si sono affrontate in un prodigioso duello. Il Signore della vita era morto, ma ora, vivo, trionfa”. Gonfalone e reliquia di questo trionfo è la Sindone.
Il tema della Sindone come reliquia della Pasqua era stato elaborato in un altro dipinto nordico, una Risurrezione attribuita a Michael Wolgemut, trent’anni prima. Nella versione di Wolgemut, il primo maestro di Albrecht Dürer, l’attenzione viene attirata da affascinanti dettagli: l’alba del nuovo giorno su cui si staglia Gerusalemme, sullo sfondo a destra; nella media distanza, poi, le donne che varcano la soglia del giardino murato; e in primo piano i militi assopiti al piede del sepolcro.
S’impongono tuttavia i due elementi narrativi principali, posti al centro della composizione: il Risorto in piedi davanti alla tomba, con lo scettro in mano e un regale manto scarlatto, e, appena dietro di lui, la Sindone, sistemata da un angelo metà dentro il sepolcro, metà fuori. Sappiamo che tra pochi istanti Cristo scomparirà e che le donne, arrivando, non lo vedranno più; rimarrà solo la Sindone come testimonianza della sua Risurrezione.
La Sindone – il lungo telo utilizzato per il trasporto e la sepoltura del Salvatore morto in croce – appare soprattutto in raffigurazioni della sua deposizione e del successivo compianto sul cadavere: una tavola dell’olandese Geertgen tot Sint Jans, assai vicino al linguaggio stilistico e allo spirito pietistico della Risurrezione attribuita al Wolgemut, illustra bene quest’uso iconografico. La stoffa bianca su cui il corpo rigido di Gesù è steso, alla stregua della corona di spine e dei chiodi disposti appena sotto di essa, viene presentata come veneranda reliquia del sacrificio della croce; Golgotha, luogo del sacrificio, di fatto è visibile sopra il gruppo costituito da Cristo morto e Maria. Questa immagine suggerisce poi un’altra dimensione di significato della Sindone. La tavola di Geertgen è quanto rimane di un grande trittico descritto nelle fonti antiche: una pala d’altare databile intorno al 1484, la cui immagine centrale era la Crocifissione, mentre quella a sinistra rappresentava forse la Via Crucis, e quella a destra il Compianto. Tale programma iconografico serviva da sfondo per l’Eucaristia, celebrata davanti a queste raffigurazioni del sacrificio fisico del Salvatore, e il telo bianco steso sotto il corpo di Cristo nella tavola era pertanto visto appena sopra l’altare rivestito di un analogo tessuto bianco, la tovaglia su cui il sacerdote pone il Corpus Domini sacramentale: l’ostia consacrata. Nella simbologia liturgica medievale, l’altare era infatti considerato simbolo del sepolcro, e le “deposizioni” ed “elevazioni” dell’ostia immagine del corpo storico di Gesù tra Venerdì Santo e Pasqua.
La stessa mistica allusione all’altare eucaristico è presente in una piccola tavola del Beato Angelico, dove i temi di compianto e sepoltura, sovrapponendosi e fondendosi, suggeriscono un’adorante “comunione spirituale” che è anche un addio. Il cruciforme corpo di Cristo, sostenuto da Nicodemo, Maria e Giovanni, il discepolo diletto, è poi avvolto nella lunga Sindone che, sull’erba fiorita del giardino, diventa un perfetto rettangolo di stoffa bianca evocante la tovaglia della mensa eucaristica.
Pure in questo caso l’opera era infatti parte di una pala d’altare – il pannello centrale della predella – e anche qui la tovaglia bianca sulla mensa era visibile pochi centimetri sotto la Sindone raffigurata e della stessa forma.
Quest’immagine era al centro della predella della celebre pala angelicana per la chiesa fiorentina di San Marco, oggi conservata nell’attiguo convento domenicano diventato museo. Leggendo dall’alto verso il basso si capiva quindi che Cristo era prima nato, poi morto e successivamente sepolto; l’elevazione dell’ostia dalla tovaglia-sindone, alla consacrazione della Messa, avrebbe sottolineato che Egli era anche, infine, risorto. E la stoffa bianca della Sindone raffigurata nella predella – sotto la tavola grande e sopra l’altare – diventava anche allusione al “velo della carne” avuto dalla madre – il velo con cui Gesù Cristo nascose la sua divinità e s’immolò.
Il collegamento tra la Passione del Salvatore e la sua Natività è antico nell’iconografia cristiana, come suggerisce un’opera palestinese del VI secolo, il coperchio di una teca per reliquie. Il soggetto principale è la Passione, e al centro vediamo Cristo che stende le braccia tra i due ladri, il suo corpo così grande da quasi occultare la croce stessa. Ma l’anonimo artista ha inserito la crocifissione tra altri momenti della Vita Christi, così che l’immagine si presenta come un sunto in cui la crocifissione è l’atto dominante, occupando l’intero centro del campo visivo – anzi, configurando la composizione in termini cruciformi. Ecco allora perché i vangeli e la prima arte cristiana hanno trattato con concisione l’evento della crocifissione in sé, capivano cioè che il senso della crocifissione non era limitato all’evento stesso, ma che sulla croce Cristo aveva portato tutta la sua esistenza passata e futura.
Il legame morte-nascita è ancora più esplicito in uno spettacolare oggetto conservato nel Museo Sacro della Biblioteca Vaticana, la Croce di Papa Pasquale i, un capolavoro di smalto cloisonné su lamina d’oro realizzato forse da un maestro siriaco attivo a Costantinopoli nei primi decenni del IX secolo. Il programma iconografico è focalizzato sul mistero natalizio ma i sette episodi vengono organizzati nelle braccia e al centro di una croce, così che l’Annunciazione, la Visitazione, la Natività, l’Adorazione dei Magi, la Presentazione al Tempio, la Fuga in Egitto e il Battesimo di Cristo devono essere obbligatoriamente letti tutti in rapporto alla futura crocifissione del Salvatore. Ciò che abbiamo chiamato “croce” è poi in realtà una stauroteca – un contenitore per frammenti della vera croce – sapendo che l’oggetto conteneva il legno su cui Cristo era morto, il credente contemplava queste scene della sua nascita con profonda commozione; non a caso il centro, corrispondente alla testa di Cristo in un crocifisso, è occupato dalla Natività stessa, col bambino in una mangiatoia, allusione alla futura offerta del corpo di Cristo come alimento.
Lo stesso modo di riassumere in un’unica immagine gli estremi esistenziali dell’umanato Figlio di Dio emerge in una piccola tavola trecentesca dove sono raffigurati sia il neonato Gesù, in basso, che il Vir dolorum, in alto, quasi a conferma dell’affermazione di san Leone Magno, secondo cui “l’unico scopo del Figlio di Dio nel nascere era di rendere possibile la crocifissione. Nel grembo della Vergine egli assunse una carne mortale, e in quella carne mortale ha compiuto la sua passione”.
L’enfasi delle Scritture e dell’arte sul legame tra la nascita di Cristo e la sua morte ha la funzione di presentare la Passione non come un episodio tragico – una conclusione imprevista e indesiderata del racconto esistenziale di Gesù – bensì come il senso stesso della sua vita, la ragione per cui è venuto nel mondo (cfr. Giovanni, 19, 37). Ma la morte di Cristo dà senso anche alle nostre vite, come suggerisce un capolavoro assoluto dell’arte occidentale, la grande pala dipinta da Giovanni Bellini per i francescani di Pesaro negli anni 1470, oggi divisa in due parti: la tavola principale al Museo Civico della città adriatica e la cimasa alla Pinacoteca Vaticana. Un’immagine drammatica che descrive l’unzione del cadavere di Cristo, tenuto sull’orlo del sepolcro da Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo e Maria Maddalena, con la Sindone che gli avvolge le gambe; anche qui, nella sistemazione originale sopra l’altare della chiesa, il significato eucaristico della scena doveva essere evidente.
Ma quest’immagine di Cristo morto sovrastava un’altra, più grande, del Salvatore che, risorto, impone la corona a Maria sua madre. Il messaggio complessivo riguardava quindi la morte e la risurrezione di Cristo; riguardava anche la risurrezione di Maria, seduta accanto a Cristo, e dei quattro santi intorno al trono: Paolo e Pietro, Girolamo e Francesco. L’insieme d’immagini rappresenta infatti la meta finale di ogni donna e uomo, la vocazione celeste della carne umana; Maria è l’antesignana di questa “sorte beata”, ma con lei ci sono altri e così capiamo che la nuova condizione del Signore morto e risorto si estende anche a noi. La bianca Sindone, in alto, che si trasforma in sontuoso abito di festa nella figura di Cristo in basso, diventa metafora della trasformazione della nostra mortalità in quella vita eterna promessa da lui, Cristo. Piuttosto che “abito di festa” dobbiamo poi dire abito nuziale, perché Chi chiama l’umanità accanto a sé è anche Sposo.
Un analogo livello di interpenetrazione dell’umano col divino traspare in alcune raffigurazioni del Cristo morto dei maestri del Cinquecento. La prima è un disegno eseguito da Michelangelo Buonarroti per Vittoria Colonna: una Pietà in cui lo stupendo Cristo morto sembra nascere dal corpo della madre. Maria, seduta sotto la croce dalla quale il figlio è stato deposto, con le mani alzate nel gesto antico di preghiera sembra crocifissa anche lei; figura della Chiesa, supplica il Padre di ridare vita al corpo del figlio, anch’esso figura ecclesiale; la Chiesa che chiede dal cielo la risurrezione della Chiesa, si può dire.
La seconda opera, sempre di Michelangelo e strettamente legata al disegno appena citato, è intensamente personale: la monumentale Pietà di marmo iniziata dal Buonarroti nel 1547 e lasciata incompiuta nel 1555, in cui, nella figura del vecchio che sostiene il corpo di Cristo vediamo l’autoritratto dell’artista. Secondo i suoi biografi contemporanei, Ascanio Condivi e Giorgio Vasari, Michelangelo intendeva collocare questo gruppo scultoreo sull’altare della cappella in cui pensava di essere sepolto, probabilmente nella basilica romana di Santa Maria Maggiore, servendosene come monumento funebre; esso costituisce pertanto una confessio fidei in cui il committente assume il carattere di un personaggio scritturistico.
In questo caso committente e artista sono la stessa persona, e il “personaggio” assunto ha un significato speciale: Michelangelo si presenta come Nicodemo, il vecchio che “andò da Gesù di notte” per chiedergli “come può un uomo nascere quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?” (Giovanni, 3, 2-4). Secondo una tradizione popolare diffusa in Toscana, Nicodemo era infatti scultore, autore del Volto Santo di Lucca.
Confrontando questa Pietà scolpita e il coevo disegno per Vittoria Colonna, rimaniamo colpiti dall’evidente rapporto tra le due opere. Nel disegno e nel gruppo scultoreo, il corpo di Cristo, potente anche nella morte, è sorretto da un personaggio che lo sovrasta e che, all’apice della composizione, diventa interprete del senso spirituale dell’evento. Ma laddove per Vittoria Colonna l’ “interprete” è Maria (in cui dobbiamo forse vedere un ritratto ideale della devota nobildonna) nella Pietà eseguita per Michelangelo stesso – nella veste di Nicodemo – è il vecchio che vuole rinascere a dare il senso. Nel gruppo marmoreo Michelangelo si sostituisce alla figura di Maria, cioè, mantenendo però l’idea base del disegno in cui il corpo di Cristo “nasce” dal corpo di chi lo sovrasta, così che vediamo Cristo nascere da Michelangelo forse secondo l’intuizione di sant’Ambrogio, per cui “ogni anima che crede concepisce e genera il Verbo di Dio (…) se c’è una sola madre di Cristo secondo la carne, secondo la fede invece Cristo è il frutto di tutti”.
© L’Osservatore Romano
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