da L’Osservatore Romano, 13 gennaio 2010
Quanti ecclesiastici a lezione da Galileo
San Giuseppe Calasanzio, gli scolopi e la scuola pensata per tutti
di Giancarlo Rocchiccioli,
Responsabile delle Biblioteche E dell’Archivio storico degli scolopi di Firenze
San Giuseppe Calasanzio ha dato inizio alla prima scuola popolare d’Europa, per usare la definizione di Von Pastor, con l’esplicito intento di offrire a tutti uno strumento di promozione umana. Una scuola per tutti deve, per forza di cose, cominciare dai livelli più bassi. San Giuseppe Calasanzio dirà “dai teneri anni”.
Di una scuola di livello più alto esistevano molti modelli. Ogni scuola si era data una precisa ratio studiorum, l’ultima in ordine di tempo era quella dei gesuiti. Di una scuola che avesse a cuore quelli che il Calasanzio chiamava “li piccolini” non esisteva una ratio studiorum e ci si doveva affidare all’inventiva dei precettori. Per il contenuto fu facile indicare lo scrivere e il far di conto. I problemi più complessi erano quelli di inventare una didattica per l’età e i contenuti di scuole con classi spesso molto numerose. Il Calasanzio, perfino nelle Costituzioni redatte venticinque anni dopo, eviterà esplicitamente di strutturare una didattica, enunciando solo un principio, “per l’utilità dei discepoli giova molto che tutti i maestri usino un metodo facile, utile e il più possibile breve. Conviene pertanto che fra veramente esperti in questa materia sia scelto il migliore” (Costituzioni, 216).
Secondo lui la metodologia della didattica deve quindi obbedire a due principi. Il primo: il metodo deve essere facile e breve. Il secondo: occorre porre attenzione sistematica agli autori più in vista che trattano di ogni singola materia. Calasanzio nel suo epistolario ci ha lasciato una ricca messe di indicazioni pratiche, sia sui contenuti, come leggere e far di conto, che sulla didattica. Per la calligrafia non nasconde di essersi fatto umile discepolo di uno dei suoi maestri, per meglio insegnare ai bambini delle scuole quando era già molto anziano.
Nel suo epistolario le raccomandazioni più numerose sono quelle relative all’abaco, la matematica, il far di conto, sottolineando che è una scienza che sta diventando popolare, quasi di moda; “piace al mondo” dirà in una sua lettera. Siamo all’inizio del Seicento, in piena esplosione galileiana. Sono frequenti anche gli inviti a quei suoi maestri che mostravano particolare inclinazione per quella materia, come il suggerimento e la notizia di acquisti di libri sull’argomento. In questo contesto, guardandosi intorno, il Calasanzio incontra quasi solo esperti di matematica di chiara ispirazione galileiana. A Roma, per il secondo anno del noviziato, coinvolge un maestro eccezionale, don Benedetto Castelli (1577-1643) che fra il 1626 e il 1636 ha abitato vicino al noviziato degli scolopi a Monte Cavallo. Castelli era a Roma incaricato dal governo papale come sopraintendente al regime delle acque, per le prime bonifiche delle vaste zone paludose dello Stato pontificio. Lettore alla Sapienza, era stato allievo di Galilei a Padova. Come Galilei, si è sempre interessato delle acque e ripetutamente ha sottoposto al maestro pisano le sue osservazioni e le sue proposte. Il suo scritto più importante, edito a Roma nel 1628 e tradotto in francese e in inglese, è uno scritto di idraulica, Della misura delle acque correnti. L’unica opera di uno dei suoi allievi scolopi è uno scritto di idraulica: è il Trattato sulla direzione dei fiumi di Francesco Michelini, pubblicato nel 1664. A Castelli Galileo aveva indirizzato la famosa lettera del 21 dicembre 1613 che è la trattazione più organica del tema dei rapporti fra scienza e fede. Per dirla con le parole dell’astronomo pisano: fra scienza e fede non può esservi contraddizione “perché procedono di pari dal Verbo divino, la Scrittura Sacra e la natura, quella come dettatura dello Spirito Santo e questa come osservantissima esecutrice degli ordini di Dio”.
Castelli oltre a essere maestro si premurava di presentare a Galileo quei suoi novizi che venivano mandati di comunità a Firenze, segnalando che il presentato era bravo nello studio della matematica, ma era anche “devotissimo delle cose di Vostra Signoria”. Chiaro riferimento alle vicende personali del grande scienziato.
I primi scolopi hanno stabilito e coltivato contatti con altri matematici, allora noti in tutta l’Italia. A Genova insegnava allora il somasco Antonio Santini (1577-1662) che era stato alunno di Galilei a Padova. Francesco Michelini che è stato certamente il più significativo degli scolopi studiosi di matematica, lo ha frequentato assiduamente per due anni, dal 1627 al 1629, quando da Genova fu trasferito a Firenze. Calasanzio, scrivendo – il 16 novembre 1630 – a padre Ambrogio Ambrogi lo pregherà di ringraziare Santini per l’insegnamento offerto a Michelini e gli consiglierà di approfittare di un tale maestro: “Il tempo che vi tratterrete in Genova mi sarà molto caro che impariate quando haverete occasione dal M. Rev.do P. Santini, al quale da parte mia farete riverenza, et li direte che io piglio per obligo particolare la carità che ha usato con il nostro fratel Francesco et usa ancor con voi et quanto alle Messe che vi ha raccomandato in ricompensa de’ libri, che vi ha ottenuti o dati in grazia io piglio l’assunto sopra di me, et anche di far ogni altra cosa che da parte sua mi verrà significato”.
Michelini, dal canto suo, partendo da Genova per Firenze, chiede a Giovanni Baliani, estimatore di Galileo, una presentazione per il grande scienziato. Altro personaggio del panorama scientifico degli anni trenta, in Italia, è Camillo Gloriosi (1572-1643), dell’Ordine dei Minimi, che era venuto in contatto con Galilei e aveva mantenuto con lui una fitta corrispondenza dal 24 maggio 1604. Il rettore della nascente comunità degli scolopi a Firenze aveva segnalato Michelini come esperto di algebra dell’arcivescovo, appassionato di quel ramo della matematica; lo studioso trovò subito la strada per arrivare a Galileo e presentargli la lettera di Baliani. Il rettore della comunità già il 7 dicembre poteva scrivere a Calasanzio che Michelini “si fa conoscere con il Galilei”.
Accanto alla scuola per tutti gli alunni Michelini caldeggia subito l’istituzione di una scuola di matematica. In uno scambio di lettere il Calasanzio sostiene che una scuola di matematica sarebbe stata meglio a Roma, vicino al noviziato e come continuazione dell’insegnamento di Castelli. Michelini pensa a Firenze proprio per la vicinanza di Galileo; le lettere di Castelli all’astronomo pisano sono ricche di elogi per il promettente allievo.
Ancora il 7 maggio 1634, tornando Michelini a Firenze, Castelli si rammarica di perdere la sua conversazione, ma “mi vado consolando però quando penso che Vostra Signoria (Galileo) goderà la dolcezza e soavità di questo buon padre, parendomi tagliato giusto a misura della vera scuola di vostra signoria, sublime d’intelletto e moderatissimo nelle pretenzioni”.
A Firenze però ci sono altri scolopi frequentatori di Arcetri: Angelo Morelli, Salvatore Grise e soprattutto Clemente Settimi. Michelini viene sempre più coinvolto nella vita di corte, soprattutto al seguito del principe Leopoldo, il fondatore dell’Accademia del Cimento. La scuola di matematica e la frequentazione di Arcetri passa al giovanissimo padre Clemente Settimi; Galilei si lamenterà proprio del fatto che Francesco Michelini stava diventando sempre più “aulico”. Se Michelini mostra una personalità più spiccata, è soprattutto Settimi che diventa il vero segretario di Galileo, ormai totalmente cieco. Per questo a Settimi chiedono lumi diversi corrispondenti dell’astronomo. La sua collaborazione ai dialoghi delle Nuove scienze non è solo di umile scrivano.
La vicinanza di Settimi diventa sempre più insostituibile per Galileo; Niccolini, l’ambasciatore a Roma del Granduca, andrà a perorare la causa di Galilei direttamente dal Calasanzio la mattina del 16 aprile 1639, che la sera stessa scrive al superiore di Firenze. Nell’insieme la lettera presenta il solito stile di tutte le lettere di Calasanzio, ma a conclusione della missiva troviamo il vero argomento che stava a cuore alla diplomazia granducale: “Et se per caso il Sig. Galileo dimandasse, che qualche notte restasse là il P. Clemente, Vostra Reverenza glielo permetta. E Dio voglia se ne sappia cavare il profitto che doveria”. Dormire fuori della casa religiosa era severamente proibito, però c’era un grande vantaggio: Settimi avrebbe potuto arricchire la sua cultura con la frequentazione di un tale maestro.
La frase di Calasanzio, detta con tono dimesso, giustamente porta lo storico Picanyol alla seguente considerazione: “Le parole della lettera renderanno immortale il nome di san Giuseppe Calasanzio non solo nella storia della scienza, ma anche nei fasti della Chiesa, essendo stato il primo tra gli eroi di santità ad intuire il merito e la grandezza di Galileo”.
Dal gruppo dei frequentatori di Arcetri è nata una vera e propria scuola galileiana, che si è prolungata fino a tutto l’Ottocento, gravitando intorno all’Osservatorio Ximeniano. Una scuola che presenterà alcune caratteristiche. La più vistosa è l’esplicita preferenza per il metodo sperimentale. A questo proposito potremmo citare il saggio di fine corso dello studente di Volterra, Giovanni Maria Mastai Ferretti, il futuro Pio ix, del 1806, che si intitola, in modo emblematico, Le macchine ottiche. Al centro della dissertazione di Mastai Ferretti c’è un’affermazione perentoria: “Un fisico matematico non deve ondeggiare tra malferme opinioni: ha bisogno di dati certi quanto è possibile e poiché l’esperienza ne somministra, questa si elegge per guida”. Da Volterra padre Eugenio Barsanti ha lanciato l’invenzione del motore a scoppio e quando partirà per il Belgio sentirà il bisogno di rivolgersi proprio all’antico alunno di Volterra, Pio ix, con una lettera quasi di consegna della sua invenzione.
Altro elemento della scuola galileiana, è la compilazione di testi scolastici, tornando agli inizi dello studio dell’abaco di san Giuseppe Calasanzio.
Va ricordato che il gruppo di scolopi apertamente galileiani non ha mai avuto alcun richiamo dall’autorità ecclesiastica.
Possiamo concludere citando una lettera di Galileo del 30 gennaio 1610: “Sì come quelle scoperte sono di infinito stupore, così infinitamente rendo grazie a Dio, che si sia compiaciuto di fare me solo primo osservatore di cosa ammiranda e tenuta a tutti i secoli occulta”.
© L’Osservatore Romano
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