da L’Osservatore Romano, 18 marzo 2010
Se la medicina vuole essere una scienza esatta
Per un approccio umanistico alla cura della persona
Pubblichiamo la premessa e parte dell’ultimo capitolo del libro Per una medicina umanistica. Apologia di una medicina che curi i malati come persone (Torino, Lindau, 2010, pagine 97, euro 12).
di Giorgio Israel
Gli sviluppi recenti delle scienze biomediche e, in particolare, il crescente peso assunto dalla genetica, stanno determinando un cambiamento profondo dei connotati della professione medica. L’approccio diagnostico tradizionale lascia sempre più il posto alla determinazione dello stato del malato per via analitica, e ora anche per via di test genetici. Ciò ha come conseguenza il fatto che il rapporto intersoggettivo e personale tra medico e paziente assume un ruolo sempre meno importante. In linea di tendenza lo stato del paziente potrà essere diagnosticato a distanza, senza che il medico neanche veda il suo volto e ascolti la sua voce. In parte, questo è già realtà.
Un’altra conseguenza non meno rilevante è un radicale cambiamento della figura del medico. Non soltanto per il paziente egli diventa “il” medico, figura astratta e impersonale e non più “un” particolare medico. Egli diventa qualcosa di diverso anche per sé stesso: sempre di più uno specialista il cui compito è analizzare in termini oggettivi un organismo e predisporre i rimedi standard per la situazione-tipo in cui esso si trova; piuttosto che valutare e curare lo stato particolare di una persona, intendendo con “stato” sia l’essere che il sentirsi malato di quella persona.
Questi mutamenti della figura del paziente e del medico vengono sempre più spesso giustificati come una conseguenza positiva e benefica di un’evoluzione inevitabile, e cioè del fatto che la medicina assume sempre di più i connotati di un’attività scientifica fondata su basi rigorosamente oggettive. Insomma, la riduzione dello spazio concesso agli aspetti soggettivi e interpersonali sarebbe un male minore rispetto al progresso consistente nel fatto che la medicina diventa sempre di più una “scienza” basata su protocolli analitici solidi e oggettivi.
Ma è proprio vero che questi mutamenti presentano aspetti soltanto positivi – evidenti e indiscutibili – e che la trasformazione della medicina in una scienza simile alla fisica o alla chimica costituisce un progresso e non comporta alcuna perdita? Si tratta di una domanda che non ha una portata esclusivamente teorica. I mutamenti profondi nel rapporto tra medico e malato provocano spesso stati di malessere le cui cause e le cui conseguenze debbono essere attentamente valutate. Pertanto, riflettere sullo statuto epistemologico e metodologico della medicina ha implicazioni pratiche rilevanti. In questo breve saggio intendo mostrare – ricorrendo a considerazioni storiche ed epistemologiche – che, nonostante non possano essere seriamente contestati i vantaggi derivanti dall’espansione dell’area degli aspetti biomedici trattabili in termini quanto più oggettivi sia possibile, la trasformazione della medicina in una scienza “esatta” comporta necessariamente la sottovalutazione delle componenti soggettive e di relazione. Questa sottovalutazione costituisce una riduzione e non un progresso. Si tratta di un aspetto regressivo che è tanto più evidente quanto più si assume come riferimento un’immagine meccanicistica della scienza.
Tuttavia, si può obbiettare: è forse un’anomalia che la medicina aspiri a godere dello statuto di scienza al pari delle altre scienze ritenute “esatte”? La risposta è certamente negativa. Quale ramo della conoscenza non ambisce oggi a proclamarsi “scientifico”? Si tratta di una tendenza che ha radici nella rivoluzione scientifica del Seicento. Come ricorda Alain Finkielkraut: “Nello stesso paragrafo in cui afferma solennemente che l’universo è scritto in lingua matematica, Galileo definisce l’Iliade, come l’Orlando furioso, “opere della fantasia umana, in cui la verità di quel che è scritto è la cosa meno importante”. A questo punto può nascere la famosa espressione che per gli umanisti non avrebbe avuto senso: “E tutto il resto è letteratura””.
Nel corso di circa tre secoli abbiamo a tal punto assimilato questo punto di vista che tutte le attività intellettuali e pratiche che non appaiono esibire un fondamento di “verità oggettiva” sono considerate di livello inferiore o infimo, dove per “verità oggettiva” deve intendersi ciò che è garantito dal metodo delle “scienze esatte”, a loro volta rappresentate dal modello delle scienze fisico-matematiche. Accade così che l’antica affermazione secondo cui la medicina non è una scienza bensì un'”arte” – e sul cui significato torneremo più in là – è divenuta quasi fonte di vergogna. Dichiarare che la medicina è una scienza appare come una condizione essenziale per evitare che su di essa cada il discredito.
In questo saggio mi propongo di mostrare che questa visione è profondamente sbagliata. La medicina non può che essere qualcosa di più di una scienza puramente oggettiva sullo stile della fisica-matematica, proprio se vuol essere una forma di conoscenza e di pratica rigorosa. Occorre prendere atto che la medicina si occupa di qualcosa che è molto di più di un mero oggetto materiale, di un uomo-macchina da riparare: essa si occupa di una persona da curare. Pertanto, essa, proprio se aspira a essere rigorosa, deve tenere in conto sia gli aspetti strettamente oggettivi che quelli soggettivi del paziente. Ne consegue che la mutilazione degli aspetti di relazione intersoggettiva – di cui sottolineavamo all’inizio le implicazioni negative e spesso dolorose – è conseguenza di una mutilazione del valore della medicina il cui rigore scientifico ha come condizione imprescindibile il rigetto di ogni forma di riduzionismo, tanto più se meccanicistico. Difendere il valore umanistico della medicina non è quindi soltanto un’istanza morale, ma significa affermarne il valore conoscitivo e pratico in tutta la sua pienezza.
Non basta fissare lo sguardo e la mente sulle carte. Occorre che lo sguardo del medico si levi verso il paziente, verso la persona in carne e ossa che gli sta di fronte. Ricordare anche questo non è una predica superflua e fastidiosa, perché questo sguardo si solleva sempre di meno e sempre di più il paziente si trova di fronte a un apparato anonimo, il “sistema sanitario” che lo esamina con un tipo di rapporto che assomiglia sempre di più a quello di una macchina con un’altra macchina.
© L’Osservatore Romano
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