da L’Osservatore Romano, 12 novembre 2009
La falsa modestia della filosofia contemporanea
Un convegno alla Pontificia Università Urbaniana a conclusione del decennale dell’enciclica «Fides et ratio»
Mercoledì 11 novembre, presso la Pontificia Università Urbaniana, si è svolto il convegno “Fede, ragione e missione”: un confronto tra studiosi sulla recezione dell’enciclica di Giovanni Paolo II Fides et ratio. Pubblichiamo due estratti delle relazioni magistrali che hanno aperto le sessioni mattutina e pomeridiana dei lavori.
di Luis Francisco Ladaria Ferrer, Arcivescovo titolare di Tibica, Segretario della Congregazione
per la Dottrina della Fede
Molteplici sono le risorse che l’uomo possiede per promuovere il progresso nella conoscenza della verità, così da rendere la propria esistenza sempre più umana. Tra queste emerge la filosofia che contribuisce direttamente a porre la domanda circa il senso della vita e ad abbozzarne la risposta: essa, pertanto, si configura come uno dei compiti più nobili dell’umanità.
Nell’introduzione dell’enciclica Giovanni Paolo II ribadisce: “Riaffermando la verità della fede possiamo ridare all’uomo del nostro tempo genuina fiducia nelle sue capacità conoscitive e offrire alla filosofia una provocazione perché possa recuperare e sviluppare la sua piena dignità” (Fides et ratio, 6).
Risulta chiaro dunque che quando nell’enciclica si parla della ragione umana si pensa specialmente alla filosofia. È evidente che le capacità conoscitive dell’uomo e della sua ragione non si riducono a quest’ultima, ma in un certo senso queste capacità raggiungono nella filosofia il loro vertice in quanto in essa si affrontano le grandi questioni sull’essere, su Dio, sull’uomo, e dunque sul senso ultimo della vita e della morte. L’affermazione delle capacità della ragione umana e il recupero della dignità della filosofia vanno insieme. Proprio nei paragrafi che precedono l’ultimo testo citato si fa riferimento alle difficoltà che suscita la riflessione filosofica moderna in quanto, più che orientare la sua ricerca sull’essere, si è concentrata sulla conoscenza umana, e più che insistere sulla capacità che l’uomo ha di conoscere la verità ha preferito sottolineare i limiti e i condizionamenti di questa conoscenza. La pluralità di posizioni, di per sé legittima, su tanti problemi e questioni ha dato luogo a un pluralismo indifferenziato, secondo il quale tutte le opinioni hanno lo stesso valore. È venuta a crearsi un’atmosfera di scetticismo generalizzato, che questiona e svaluta anche quelle verità che l’uomo era già sicuro in precedenza di aver raggiunto.
Nel contesto contemporaneo si diffonde così una “sfiducia nella verità”. “Con falsa modestia ci si accontenta di verità parziali e provvisorie, senza tentare di porre domande radicali sul senso e sul fondamento ultimo della vita umana personale e sociale. È venuta meno, insomma, la speranza di poter ricevere dalla filosofia risposte definitive a tali domande” (Fides et ratio, 5). Nel pensiero di Giovanni Paolo II la fede può venire in aiuto della filosofia; nell’affermazione della verità della fede si può ricuperare la fiducia nella ragione e così ridare alla filosofia la sua piena dignità. La conoscenza della verità alla quale possiamo arrivare con la ragione si riferisce dunque primariamente, nell’intenzione dell’enciclica, alla ricerca filosofica.
La relazione che intercorre fra la ricerca della verità con la ragione umana e la filosofia, concepita quest’ultima non come un sapere settoriale ma come il tentativo di offrire risposta alle grandi questioni umane, è chiara.
Bisogna in ogni caso anche esaminare brevemente la relazione che c’è fra la fede e la teologia, che, non essendo certamente la stessa cosa, si trovano in un intimo collegamento. La teologia, infatti, viene definita come scientia fidei, scienza della fede e, come tale, ha come finalità propria la ricerca dell’intelligenza di questa fede. In questo senso, con tutte le differenze su cui non c’è bisogno di insistere in questo momento, ha anche come compito proprio, insieme alla filosofia, di “indagare sui diversi aspetti della verità”.
La teologia dunque entra direttamente nelle preoccupazioni dell’enciclica in quanto intimamente vincolata alla fede. Se dobbiamo necessariamente pensare alla filosofia, quando si parla della ratio, non possiamo dimenticare la teologia, quando si fa menzione della fides, senza voler affermare con questo una troppo rapida identificazione fra di esse. Fra fede e teologia da una parte e ragione e filosofia dall’altra si stabiliscono delle relazioni assai complesse. Se la fede è un valido aiuto per la ragione umana, la filosofia presta un contributo indispensabile all’intelligenza della fede.
Proprio per questo dobbiamo tener presente che non sarebbe giusto interpretare il titolo dell’enciclica e le sue affermazioni fondamentali come se ci fosse una divisione dei campi: alla filosofia spetterebbe fare uso della ragione per arrivare alla verità, alla teologia corrisponderebbe occuparsi della fede che ci porta al di là di quanto la ragione riesce a comprendere. In questo caso ci sarebbe una semplice giustapposizione della ragione e la fede, non una vera relazione fra entrambe.
Ma la questione è molto più complessa. Da una parte la rivelazione cristiana è stata lungo la storia uno stimolo per la filosofia e, d’altra parte, la teologia, e dunque la comprensione e l’approfondimento della fede cristiana, ha fatto uso della filosofia e della ragione per meglio illustrare i contenuti della rivelazione cristiana e le conseguenze che da essa derivano per la vita degli uomini. La fede non può fare a meno della ragione, e sappiamo bene come nel corso della storia si è insistito sul fatto della razionalità della fede. Questa, a sua volta, considerata in quanto ai suoi contenuti (fides quae), ma anche in quanto atteggiamento di risposta umana alla rivelazione divina (fides qua), ha offerto alla ragione umana dei temi sui quali valeva la pena investigare ed è stata di stimolo per affrontarli con fiducia nelle possibilità umane di raggiungere delle certezze. La fede, infatti, aiuta a non soccombere allo scetticismo angosciante che può portare alla disperazione. Soltanto nel contesto più largo della relazione fra fede e ragione ha senso il discorso sulla circolarità che intercorre fra la filosofia e la teologia.
Tenendo presente queste prospettive, incominceremo con lo studio delle affermazioni dell’enciclica sull’importanza della fede per la filosofia, per passare poi alla spinta verso la fede che la filosofia provoca, e finalmente, al bisogno che la teologia ha della ragione e dunque della filosofia per svolgere il suo compito di rendere possibile l’intellectus fidei.
Un aspetto fondamentale che deve essere studiato in questa nostra relazione è già apparso in uno dei testi citati con un altro proposito: “Riaffermando la verità della fede, possiamo (…) offrire alla filosofia una provocazione perché possa ricuperare e sviluppare la sua piena dignità” (Fides et ratio, 6).
La fede dunque può aiutare la filosofia ad affrontare i grandi problemi dell’essere e dell’uomo perché questi possa ridare un senso alla sua vita. La filosofia ritornerà così alla sua vocazione originaria. Non si può dimenticare, lo abbiamo già segnalato, che la filosofia ha cercato tradizionalmente il senso totale della vita. La Chiesa crede che questo senso ultimo di tutte le cose si trova in Gesù, indicando così il senso globale della vita e della storia. Partendo da questa convinzione, il Papa incoraggia “i filosofi, cristiani o meno, ad avere fiducia nelle capacità della ragione umana e a non prefiggersi mete troppo modeste nel loro filosofare (…) È la fede che provoca la ragione ad uscire da ogni isolamento e a rischiare volentieri per tutto ciò che è bello, buono e vero. La fede si fa così avvocato convinto e convincente della ragione” (Fides et ratio, 56), rispettando allo stesso tempo la necessaria autonomia di cui essa gode. Ma, nel rispetto di questa autonomia, la fede la spinge ad aprirsi alla trascendenza.
Il tema è stato ancora affrontato in altri passi del nostro testo. Così capita, ad esempio, quando si tratta del senso degli interventi magisteriali sulla filosofia; la Chiesa, infatti, ha il dovere di indicare ciò che in un sistema filosofico o nel pensiero dei filosofi può essere incompatibile con la propria fede, poiché tanti temi studiati dalla filosofia, come quelli di Dio, l’uomo e il suo agire, e così via toccano anche la verità rivelata. Questo necessario discernimento da parte dei pastori della Chiesa non deve essere inteso in un modo negativo, “ma sono tesi a provocare, promuovere e incoraggiare il pensiero filosofico” (Fides et ratio, 51). Lo stimolo che viene dalla Chiesa ha lo scopo di non precludere la strada che porta al riconoscimento del mistero. Le pagine finali dell’enciclica ribadiscono questo influsso positivo che la fede ha avuto nel confronto della filosofia. Questa limita se stessa quando dimentica o rifiuta la verità della rivelazione; la teologia ha sempre provocato la filosofia per evitare questa chiusura e rimanere aperta davanti alla novità radicale che la rivelazione comporta.
La parola di Dio è un aiuto per l’approfondimento del vero, del buono e del bello che la filosofia deve portare a termine. Perciò sono comprensibili le parole di Papa Giovanni Paolo II quando esorta i filosofi a lasciarsi “interpellare dalle esigenze che scaturiscono dalla parola di Dio e abbiano la forza di condurre il loro discorso razionale e argomentativo in risposta a tale interpellanza. Siano sempre protesi verso la verità e attenti al bene che il vero contiene. Potranno in questo modo formulare quell’etica genuina di cui l’umanità ha urgente bisogno, particolarmente in questi anni (…) Vorrei incoraggiare, in particolare, i credenti che operano nel campo della filosofia, perché illuminino i diversi ambiti dell’attività umana con l’esercizio di una ragione che si fa più sicura e acuta per il sostegno che riceve dalla fede” (Fides et ratio, 106).
Da molto tempo vale il motto credo ut intelligam. Il rapporto fra la conoscenza che viene dalla fede e quella che procede dall’ascolto della rivelazione divina si può scorgere già nell’Antico Testamento, e in particolare nei libri sapienziali. In essi si combinano la fede di Israele e la sapienza di culture diverse. Gli autori sacri attestano la convinzione che fra la conoscenza della ragione e quella della fede ci sia un’inscindibile unità. Negli eventi del mondo, che possono essere analizzati e compresi secondo i criteri della ragione, si scopre però l’azione di Dio, e in questo modo “la fede affina lo sguardo interiore aprendo la mente a scoprire, nel fluire degli eventi, la presenza operante della Provvidenza” (Fides et ratio, 16).
Questa apertura della mente fa sì che l’uomo, che può riconoscere con la ragione la strada che deve seguire, sia capace di percorrerla in modo molto più spedito “se inserisce la sua ricerca nell’orizzonte della fede”. Così il popolo d’Israele è riuscito ad aprire alla ragione la strada verso il mistero che la sorpassa. Chi non è capace di aprirsi alle realtà trascendenti ma si chiude nel suo orgoglio diventa, secondo le parole della Sacra Scrittura, uno “stolto”, uno che si illude di conoscere ma non riesce a fissare lo sguardo su quello che è veramente essenziale e decisivo.
La fede libera dunque la ragione, in quanto le permette di raggiungere con coerenza il suo oggetto di conoscenza e lo colloca in quell’ordine in cui tutto acquista un senso.
© L’Osservatore Romano
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