da L’Osservatore Romano, 14 novembre 2009
Nessuna lingua basta al «lògos»
Il convegno che avrebbe voluto fare Marta Sordi
Si è chiuso il 13 novembre all’Università Cattolica del Sacro Cuore il convegno “Dal lògos dei Greci e dei Romani al lògos di Dio” organizzato in onore di Marta Sordi (1925-2009). Pubblichiamo una sintesi delle conclusioni tenute dal direttore del nostro giornale.
Intorno al termine e al concetto greco lògos da molti secoli s’intrecciano strade e riflessioni, tra oriente e occidente. Se viene spontaneo renderlo immediatamente con “parola”, subito dopo ci si rende conto che c’è molto di più. Non a caso Goethe vi ha dedicato i versi indimenticabili del Faust che descrivono il tentativo del vecchio scienziato di tradurre “il sacro originale” del prologo, davvero abissale, del vangelo giovanneo. E se la prima traduzione (secondo Andrea Casalegno) è, appunto, “la parola” (das Wort), a questa fanno seguito, per approssimazioni successive e ascendenti, “il pensiero” (der Sinn) e poi “la forza” (die Kraft), sino all’ultima, della quale sembra fiducioso, che lo porta a scrivere “l’atto” (die Tat). Con una soluzione tanto suggestiva quanto naturalmente non definitiva.
Sullo sfondo del tentativo faustiano, il convegno sul lògos nel mondo antico dell’Università Cattolica del Sacro Cuore – che insieme agli atenei di Bologna e Genova ha voluto così iniziare a ricordare Marta Sordi, una delle sue docenti più intelligenti e vivaci, dando compimento a una delle sue ultime appassionate iniziative – si è risolto in un incontro scientifico che ha raggiunto punte di altissimo livello. Il convegno ha voluto entrare in modo significativo e in più di un intervento (a iniziare dalle introduzioni del cardinale Camillo Ruini e di Luigi Franco Pizzolato) al dibattito che è stato rilanciato da Benedetto XVI su fede e “ragione” – altra possibile resa di lògos – e sulla “ellenizzazione” del cristianesimo, che storicamente s’intreccia anche con la questione del rapporto con l’ebraismo. Come emerge non solo dalla lezione di Ratisbona, ma anche dal Gesù di Nazaret. Viene così mostrato un nodo che non solo è cruciale per gli specialisti ma ha anche riflessi importanti sull’essere della vita cristiana di oggi e sul suo confronto continuo con il mondo.
Preceduto da iniziative analoghe incentrate sui concetti di “mistero” (mystèrion) e “verità” (alètheia) nel mondo antico – i cui risultati sono stati riuniti in quattro volumi curati da Angela Maria Mazzanti e pubblicati da Itaca (2003 e 2006) e dalle Edizioni Studio Domenicano (2008 e 2009) – il convegno della Cattolica ha mostrato soprattutto la felicità di un metodo che affronta lo studio del mondo antico nella sua globalità. Come ha saputo fare Marta Sordi “che, da storica, ha indagato con strenuo rigore la logica degli avvenimenti, degli stessi avvenimenti della fede cristiana” (Pizzolato). Con un atteggiamento simile a quello di Margherita Guarducci, anch’essa appassionata studiosa del mondo antico, che ricorda l’emozionante definizione di filologia di Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff.
Scienza storica nel senso più pieno del termine, la filologia – ma in realtà la storia – è infatti volta a “far rivivere con la forza della scienza quella vita scomparsa, il canto del poeta, il pensiero del filosofo e del legislatore, la santità del tempio e i sentimenti dei credenti e dei non credenti, le molteplici attività sul mercato e nel porto, in terra e sul mare, gli uomini intenti al lavoro e al gioco. Come in ogni scienza, o in ogni filosofia, per dirla alla greca, anche qui si comincia con lo stupore che suscita ciò che non si capisce; lo scopo è di arrivare alla pura e felice contemplazione di ciò che si è capito nella sua verità e bellezza. Poiché la vita che noi ci sforziamo di comprendere è un’unità, anche la nostra scienza è un’unità”, concludeva il grande studioso, ricordando che l’inevitabile articolazione delle discipline “è giustificata soltanto dai limiti delle capacità umane”, ma “non deve soffocare, neppure nello specialista, la coscienza dell’insieme”. Che invece spesso si dimentica.
Tenendo insieme grecità classica ed ellenismo, il glottologo Moreno Morani ha sontuosamente dipanato – come un mercante di perle e quasi con la stessa suggestione del Faust goethiano – la semantica, fra greco pagano e greco cristiano, del termine lògos: dalla radice delle lingue indoeuropee, trapassata nello stesso latino (legere) e a cui si può attribuire il significato di “raccogliere”, al greco omerico (dov’è semplicemente “parola”) e alla sua evoluzione, che già in Pindaro assume la sfumatura di “parola veritiera” ed “enunciato razionale” contrapposto a mythos, che è invece “racconto favoloso” o “non documentato” (e per questo deplorato con acuta veemenza nell’interpretazione biblica della creazione genesiaca dal più grande esponente del giudaismo ellenistico, Filone di Alessandria).
Non a caso, e felicemente, grande spazio il convegno milanese ha riservato proprio al giudaismo ellenistico, e in particolare al corpus filoniano (mentre altrettanto spazio avrebbe potuto essere riservato all’universo delle versioni greche delle Scritture ebraiche, che solo qua e là hanno fatto capolino nelle relazioni, e ovviamente a quello delle Scritture sacre cristiane, anch’esso soltanto sfiorato). Non sono così mancati all’appuntamento i “filonisti” italiani, da Francesca Calabi a Mazzanti a Roberto Radice, curatore per antonomasia (e traduttore, con Clara Kraus Reggiani) di Filone. Suggestiva è stata la via scelta da Calabi per trattare del lògos filoniano, del quale è conoscibile l’esistenza ma non l’essenza, e per il quale dunque sono possibili solo metafore, bibliche e non: ombra, rugiada, pupilla dell’occhio, spada fiammeggiante, manna che nutre l’anima e il popolo. E innovativa dal punto di vista storico è stata la relazione di Radice sulla funzione creatrice del lògos, secondo un’originale rielaborazione delle tradizioni filosofiche platoniche e stoiche fondata sul metodo interpretativo allegorico, anch’esso di origine stoica.
La preparazione del vangelo anticipata dalla sapienza pagana e dall’antica economia profetica era così compiuta, e così verrà poi ricostruita nel IV secolo da Eusebio di Cesarea. Ma a riconoscerla sarebbero stati già gli intellettuali del II e III secolo, da Clemente – a cui ha dedicato una bellissima relazione Leonardo Lugaresi – a Origene. Fino alla riflessione dell’età tardoantica, a partire dai Padri cappadoci per giungere alla meditazione dello PseudoDionigi che mette a frutto la tradizione neoplatonica per contemplare l’ineffabile. E il medioevo latino imparerà il greco per tradurlo e consegnarlo alla mistica.
© L’Osservatore Romano
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