da L’Osservatore Romano, 19 novembre 2009
Sorgenti lunari
Che cosa significa la scoperta dell’acqua sul satellite terrestre
di Maria Maggi
C’è acqua sulla Luna. La prova definitiva si è avuta esaminando i dati della missione lanciata dalla Nasa il 18 giugno scorso. Lo studio del materiale espulso nello schianto del razzo Centaur e della sonda Lcross dentro il cratere Cabeus, situato vicino al Polo Sud lunare, ha dato agli scienziati la certezza.
La Nasa così ha potuto annunciare che l’acqua è stata effettivamente trovata. Già un mese fa alcuni dei venti osservatori che avevano puntato i telescopi verso la Luna comunicarono che i primi dati spettroscopici erano compatibili con una fuoriuscita di vapore acqueo nel momento dell’impatto dal terreno.
La missione, complessa e tuttora in corso, è iniziata quando, con un unico razzo Atlas v, sono state lanciate le due sonde lunari della Nasa Lro (Lunar reconaissance orbiter) e Lcross (Lunar crater observation and sensing satellite). La prima si è disposta su un’orbita polare, a un’altezza di 50 chilometri dalla superficie, la distanza più ravvicinata mai raggiunta in una missione intorno alla Luna. Il suo compito è quello di raccogliere per almeno un anno informazioni utili per future esplorazioni umane. Con i suoi strumenti, monitorando la superficie con una capacità di rilevare particolari di appena un metro, sta producendo la più dettagliata topografia tridimensionale del satellite, segnalando le zone migliori per un allunaggio. Il suo radar, inoltre, è in grado di penetrare anche gli strati superficiali del suolo, valutando l’eventuale presenza di ghiaccio nascosto dalla regolite – lo strato di polvere, formato dagli impatti meteoritici nel corso di milioni di anni. La sonda sta anche facendo il censimento delle risorse su cui i futuri astronauti potranno contare. Studia anche gli effetti della radiazione cosmica cui saranno esposti nell’ambiente lunare, impiegando un materiale speciale in grado di simulare il tessuto umano.
La seconda delle sonde doveva, invece, verificare la presenza di ghiaccio in un cratere lunare perennemente in ombra, al polo sud. Mentre Lro è entrata in orbita attorno alla Luna, Lcross ha percorso un’orbita di circa 37 giorni attorno al sistema Terra-Luna, ancora montata sull’ultimo stadio del razzo vettore (Centaur) che l’aveva portata nello spazio. La terza orbita percorsa si è conclusa con un impatto sulla Luna, il 9 ottobre, nel cratere Cabeus. Prima dell’impatto i due veicoli si erano separati: il primo a precipitare sulla superficie è stato lo stadio superiore del razzo vettore. La velocità con cui il razzo, che pesava 2.366 chilogrammi, ha toccato la Luna era di 9000 chilometri all’ora, il che ha prodotto un cratere artificiale largo una ventina di metri e profondo quattro. Dopo quattro minuti anche la sonda Lcross, del peso di 891 chilogrammi, si è scontrata con la Luna in un luogo poco distante da quello in cui aveva impattato Centaur. In questo modo Lcross ha attraversato il pennacchio di detriti sollevato dall’ultimo stadio del razzo e lo ha studiato. La nube di polvere non era alta quanto si prevedeva a causa dell’angolo di caduta, ma era comunque larga 6 chilometri. La sonda ne ha analizzato la composizione per controllare l’eventuale presenza d’acqua. Si pensava che i due impatti potessero essere visibili addirittura con strumenti amatoriali, invece sono stati osservati solo da grandi osservatori terrestri e da altri strumenti in orbita, tra cui la stessa Lro. Quest’ultima, con osservazioni all’infrarosso registrate dallo strumento Diviner, ha mostrato la traccia termica dei due impatti sulla superficie lunare. Lro, infatti, è passata vicino al sito un minuto e mezzo dopo l’impatto, a una distanza di circa 80 chilometri.
Dai dati trasmessi a Terra dalla sonda Lcross poco prima dell’urto, l’ente spaziale americano ha avuto la conferma dell’esistenza di ghiaccio in quel cratere, sito nelle regioni polari. Una presenza indispensabile per realizzare un avamposto umano sulla Luna.
Inizialmente come luogo di impatto di Centaur era stato scelto il cratere Cabeus-A. Poi è stato cambiato con Cabeus (un cratere con un diametro di 96 km e una profondità media di 4 km), perché quest’ultimo sembrava promettere una maggiore presenza di ghiaccio al suo interno.
La decisione è maturata a seguito di approfondite analisi su tutti i dati disponibili provenienti dalla Luna comprese le ultime osservazioni di Lro e della sonda indiana Chandrayaan-1.
La prima missione indiana sulla Luna, lanciata il 22 ottobre 2008, aveva come obiettivi principali quelli di scovare tracce di acqua e di eseguire una mappatura chimico mineralogica del nostro satellite. Le elaborazioni recentemente eseguite sui dati raccolti da questa sonda avevano chiaramente indicato la presenza di molecole di acqua sulla superficie lunare, nelle regioni che si estendono dai poli lunari fino a una latitudine di 60 gradi. È stata riscontrata anche la presenza di ossidrile, una molecola composta da un atomo di ossigeno e da uno di idrogeno. La scoperta della presenza di molecole di acqua e di ossidrile nelle regioni polari, confermata poi anche dall’analisi e comparazione di dati ottenute con altre sonde (Cassini, Epoxi e Lro), fa sorgere ulteriori quesiti riguardo alla loro origine, e ai loro effetti sulla mineralogia della Luna.
I crateri polari sono luoghi ideali per trattenere il ghiaccio, in quanto in alcuni di essi la luce del Sole non riesce mai a penetrare e, dunque, le temperature rimangono costantemente al di sotto dei -173 C. In uno di essi si è registrata la temperatura più bassa di tutto il sistema solare, con -240C.
Certamente fino ad ora quando gli scienziati parlavano di acqua sulla Luna, non intendevano laghi, oceani e nemmeno pozze, ma solo molecole d’acqua e di ossidrile interagenti con le molecole della roccia e della polvere presenti negli strati superficiali della superficie lunare. Si ipotizzava che nella crosta lunare ci potessero essere fino a 1000 molecole d’acqua per milione, ossia un po’ meno di un litro d’acqua su una tonnellata circa di roccia. Adesso però non sono state trovate minuscole molecole di ghiaccio, come era stato accertato finora, ma “importanti quantità” di acqua ghiacciata. Ma come può esserci questo prezioso elemento sulla Luna?
La Luna per gran parte della sua storia antica è stata bombardata da comete e asteroidi, molto ricchi d’acqua. La maggior parte di quest’acqua è stata subito divisa nei suoi elementi costituenti, idrogeno e ossigeno, che per lo più si sono dispersi immediatamente nello spazio.
È stato però ipotizzato che quantità rilevanti di acqua potessero esser rimaste sulla Luna, o sulla superficie, o inglobate nella crosta. Le osservazioni delle precedenti missioni Nasa Clementine (1994) e Lunar Prospector (1998) avevano suggerito (ma non dimostrato) la possibile presenza di acqua ghiacciata all’interno dei crateri permanentemente in ombra vicino ai poli lunari, sotto lo strato superficiale di polvere. L’averla individuata consentirà all’uomo di conoscere meglio anche l’evoluzione della Terra.
Gli strumenti scientifici della sonda Lcross hanno lavorato sorprendentemente bene, con l’invio sulla Terra di una gran quantità di informazioni che permetteranno di conoscere meglio il satellite e sapere se c’è ghiaccio sufficiente per creare un avamposto umano permanente sulla Luna entro il 2020, anche in preparazione di una futura missione su Marte. Per ora gli scienziati che stanno esaminando i dati sono convinti che ci sia una quantità d’acqua maggiore di quanto si aspettassero, bastante per una base scientifica, oltre ad altre sostanze utili a sostenere future esplorazioni lunari. È infatti molto più economico estrarre le risorse necessarie in loco, che portarle dalla Terra. L’acqua potrà servire, oltre che per sostentare la vita umana, anche, dividendo l’idrogeno dall’ossigeno, per essere il combustibile dei razzi. La regolite poi contiene anch’essa ossigeno di facile separazione e in misura minore idrogeno, oltre a silicio utilizzabile per la fabbricazione di pannelli solari. Nel sottosuolo lunare si trovano, infine, quantità ingenti di elio-3, isotopo radioattivo dell’elio, molto raro sulla Terra e utilizzato nelle ricerche per la fusione nucleare.
© L’Osservatore Romano
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