Questa l’ipotesi che scaturirebbe da uno studio realizzato negli Stati Uniti dall’economista Roland Bénabou e due altri economisti dell’Università di Princeton: la loro ricerca mostrerebbe che il livello di religiosità di una nazione, mediamente, è inversamente proporzionale al livello di innovazione scientifica. Bénabou spiega infatti che “Paesi con elevati livelli di religiosità presentano modesti livelli di innovazione scientifica e tecnica, in termini di numero di brevetti per abitante”, e che tale situazione si ripete anche “quando si tiene conto delle differenze, esistenti nella popolazione, nel reddito pro capite e nei livelli di istruzione”.
Lo studio è stato segnalato nel mese di settembre sul sito dell’UAAR – l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti, con un articolo dal titolo Scienza e religione sono veramente nemiche, dopotutto. Una recente ricerca mostra come i paesi e gli stati Usa più religiosi producano un numero minore di brevetti in rapporto alla popolazione. Il senso, per i laicisti UAAR, è che questo tipo di ricerche proverebbe l’irrimediabile conflittualità tra fede e scienza, oltre a dimostrare come la religione costituisca un ostacolo per la crescita sociale, culturale e economica, oltre che scientifica, di una nazione. In realtà, senza negare ovviamente la validità scientifica dello studio, sembra però di trovarsi di fronte ad un meccanismo di semplificazione e banalizzazione dello studio stesso, portato a conseguenze, ovvero di una ipotetica incompatibilità tra fede e innovazione, che dovrebbero forse basarsi su altri presupposti, e richiederebbero di essere ulteriormente approfonditi, o almeno maggiormente precisati. Potremmo considerare in primis due questioni concettuali basilari.
Innanzitutto l’equivalenza tra brevetti e scienza: non solo la scienza teorica sembra esclusa da questa analisi, ne resta fuori anche la scienza sperimentale o applicativa che non origini brevetti di alcun tipo; inoltre vi si include, al contrario, tutte le possibili invenzioni di natura ad esempio squisitamente pratica, che con la scienza possono anche avere poco a che fare: ad esempio un particolare ferma-porta, un tappo per il vino, un segnalatore utilizzato nell’industria automobilistica, un particolare tipo di paracadute, o di slittino. Giusto per esemplificare all’estremo.
Altra questione, è il considerare la religione come fattore unico o prevalente di maggior o minore sviluppo scientifico, come se fattori quali ad esempio la crescita economica di un paese, il suo sistema educativo e culturale, la sua storia, la maggiore o minore democrazia, il contesto geografico, le caratteristiche del territorio, le risorse naturali, lo stesso clima dell’area in cui si trova, per citarne alcuni, non avessero alcun influsso. O, comunque, fossero totalmente secondari (anziché prevalenti come invece presumiamo nella realtà) rispetto alla maggiore o minore religiosità dei paesi “con pochi brevetti” ?
Ulteriore questione che potremmo considerare è se Cina e Giappone, che nello studio risultano attestarsi ai maggiori livelli di innovazione, siano realmente “paesi laici”, dimenticando ad esempio la forte e singolare spiritualità del Giappone, che ammette non solo una pluralità di religioni, ma anche un possibile sincretismo nel praticarne più di una, ritualmente o nella preghiera. Last but not least, l’inglese non è casuale, sembra proprio difficile considerare gli Stati Uniti come un paese scientificamente arretrato, in base alla ricerca. Oltretutto parliamo proprio di una nazione che da sempre viene mostrata, anche dall’UAAR stessa, come un esempio di confronto-scontro tra laici e credenti, e tra la laicità dello stato e dell’educazione e la religiosità dei propri cittadini.
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