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Astronomia: su Venere potrebbero non esserci stati oceani di superficie

Venere

Un nuovo studio suggerisce che l’interno di Venere potrebbe essere stato asciutto per la maggior parte della sua storia.

La ricerca sfida l’ipotesi che il pianeta abbia ospitato oceani liquidi sulla superficie.

Venere, un pianeta inabitabile con temperature medie di circa 465 °C e una pressione 90 volte superiore a quella terrestre al livello del mare, potrebbe non aver mai ospitato oceani liquidi sulla sua superficie. Questo emerge da uno studio pubblicato su Nature Astronomy che mette in discussione l’ipotesi che Venere abbia avuto un passato più simile alla Terra.

A differenza della Terra e di Marte, dove l’acqua ha modellato il paesaggio nel corso di milioni di anni, la superficie di Venere non mostra segni chiari di erosione causata dall’acqua. La comunità scientifica si è a lungo interrogata su questa discrepanza, dibattendo se il pianeta sia sempre stato arido e inospitale o se abbia mai posseduto oceani liquidi.

Tereza Constantinou e colleghi hanno esaminato la storia passata di Venere analizzando la sua atmosfera attuale, strettamente legata ai gas emessi durante l’attività vulcanica e riflettente il contenuto d’acqua interno del pianeta. Utilizzando un modello chimico, gli autori hanno determinato la composizione interna di Venere che meglio rispecchia le osservazioni atmosferiche. I risultati rivelano che l’interno di Venere manca di idrogeno, indicando che è attualmente molto più secco rispetto all’interno terrestre.

Secondo lo studio, Venere probabilmente non ha mai avuto condizioni idonee alla formazione di oceani. L’acqua presente nella sua atmosfera potrebbe essere rimasta sotto forma di vapore, senza mai condensarsi sulla superficie, prima di disperdersi nello spazio.

Gli autori suggeriscono che pianeti extrasolari simili a Venere siano improbabili candidati per la presenza di acqua liquida o condizioni abitabili.

Articolo Nature Astronomy: A dry Venusian interior constrained by atmospheric chemistry, Nature Astronomy. DOI 10.1038/s41550-024-02414-5 .

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